Sangue, guerra, vacanze, ecco a voi la Crimea

Sangue, guerra, vacanze, ecco a voi la Crimea

Crimea. Il nome evoca la partecipazione del Regno di Sardegna, nel 1855, alla guerra tra l’Impero russo da un lato, francesi, inglesi e ottomani dall’altro. È passato oltre un secolo e mezzo da quel sanguinoso conflitto (la prima guerra dell’età moderna, per alcuni storici). Eppure non tutto è cambiato. La Crimea resta una terra militarizzata. Segnata dalle tensioni sociali, economiche ed etniche. Dove il peso della storia rischia di schiacciare il presente. E anche il futuro.

A detta dei geografi, la Crimea è una penisola. In realtà è un’isola, poco più grande della Sicilia, collegata all’Ucraina da una sottile striscia di terra: l’istmo di Perekop. Istmo che sembra fatto apposta per complicare la vita, sia a chi sta sulla (pen)isola, sia a chi sta sulla terraferma. E infatti nel corso dei millenni, per il controllo di Perekop, è stato versato molto, moltissimo sangue. Troppo.

Se si consulta un’enciclopedia di storia militare, fanno riferimento a Perekop almeno cinque voci. C’è l’assedio del 1736, conclusosi con l’effimera conquista russa della fortezza tataro-ottomana di Or Kapi. L’assedio del 1771, dopo il quale Mosca trasformò la Crimea in un suo protettorato (annesso nel 1783). La battaglia del 1920, durante la guerra civile russa, quando i bolscevichi sconfissero le truppe bianche di Wrangel, il “barone nero” che non voleva arrendersi a Lenin. I ferocissimi scontri del 1941, nel corso dell’invasione tedesca dell’Urss. Quelli di tre anni dopo, in occasione della poderosa controffensiva sovietica.

La Crimea ha sempre fatto gola. A greci, romani, goti, mongoli e ottomani. A russi, inglesi e francesi, tedeschi, ucraini. Persino ai mercanti genovesi e veneziani, come ricordava una suggestiva toponomastica medievale: Cerchio, Cembalo, Caffa e Soldaia, oggi chiamate Kerch, Balaklava, Feodosia e Sudak.

Come tante altre isole non del tutto isolate, la Crimea galleggia in una condizione ambigua. Problematica. Repubblica autonoma all’interno dell’Ucraina, ha come capitale Simferopoli, un’umida città a una cinquantina di chilometri dal mare.

L’anima della Crimea, però, si trova sul Mar Nero. A Sebastopoli. Quasi quattrocentomila abitanti, tra i maggiori porti dell’Europa orientale, Sebastopoli è una città di contraddizioni. A partire da questa: fa parte della Crimea sul piano storico e geografico, ma non su quello amministrativo. Perché come la capitale nazionale Kiev, gode di uno status a se stante. È facile capirne la ragione. Grazie alla sua baia profonda e alla sua posizione strategica, il porto di Sebastopoli è eccellente. E a differenza di gran parte dei porti russi, ha il vantaggio di non ghiacciare mai. Ai tempi dell’Urss era la principale base della Flotta sovietica del Mar Nero. Oggi è la base sia della Marina militare ucraina, sia della Flotta russa del Mar Nero.

Due sono le missioni della Flotta. Difendere il Mar Nero, e con esso i confini meridionali della Russia. E tutelare gli interessi nazionali nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. Nelle attuali condizioni, però, sembra improbabile che la Flotta possa intervenire con efficacia in un teatro lontano come quello dell’Oceano Indiano. Alla fine degli anni Ottanta vantava 835 navi, ed era lo spauracchio delle marine del Mediterraneo. Oggi, invece, è l’ombra di se stessa. Può contare su appena una cinquantina di navi da guerra, e benché sia in atto una costosa modernizzazione, sono perlopiù vecchie imbarcazioni, che arrugginiscono nelle acque tiepide del Mar Nero. Certo, la Flotta ha partecipato alla guerra russo-georgiana del 2008. Ma un conto è avere a che fare con la guardia costiera di Tbilisi, un altro è doversela vedere con la marina militare di qualche potenza emergente, come la Turchia o l’India.

La presenza militare russa a Sebastopoli, con gli incidenti e i disagi che comporta, è un tema scottante in Ucraina. Una terra lacerata tra l’est filo-russo, e l’ovest filo-europeo. I più critici sono, naturalmente, i nazionalisti ucraini delle regioni occidentali. Mosca li ha fatti infuriare parecchie volte. Ad esempio nel 2003, quando si è spinta a mettere in dubbio la sovranità ucraina su Tuzla, isoletta sabbiosa nello stretto di Kerč (che collega il Mar Nero a quello di Azov).

Alle presidenziali del 2010 gli ucraini dell’ovest hanno votato compatti per la bionda Yulia Tymoshenko, pasionaria della Rivoluzione arancione oggi in prigione. Tutto inutile. Pochi mesi dopo il parlamento ucraino, la Verchovna Rada, ha ratificato l’accordo per prolungare sino al 2042 la presenza della Flotta a Sebastopoli. L’opposizione non l’ha presa molto bene. Tra i banchi della Rada è scoppiata la rivolta: insulti, urla, zuffe, persino lanci di uova contro il discusso speaker del parlamento Volodymyr Lytvyn, costretto a rifugiarsi dietro l’ombrello di un commesso caritatevole. Peraltro la concessione della base navale per altri 25 anni ha avuto una grossa contropartita: uno sconto del 30% sul prezzo del gas russo. Un risultato non da poco per gli impoveriti cittadini ucraini, stanchi di “guerre del gas” con il potente (e ricco) vicino.

Dall’elezione a presidente del russofilo Viktor F. Yanukovych nel 2010, il legame tra Ucraina e Russia si è andato rafforzandosi. Questo è ancora più vero nel caso della Crimea. Se a livello nazionale gli abitanti di etnia russa sono il 17%, nella Repubblica autonoma questa percentuale sfiora il 60%; e quasi metà dei crimeani di etnia ucraina considera il russo sua lingua madre. Tale composizione etnico-linguistica si rispecchia nell’assemblea locale, dove il Partito delle regioni di Yanukovych controlla ben ottanta seggi su cento.

La preponderanza dei cittadini di etnia russa è figlia della storia della Crimea. Provincia degli zar dal 1783 al 1917, con la Rivoluzione d’ottobre passò al nuovo governo rosso: fino al 1945 fu una repubblica socialista sovietica autonoma; poi, dopo la deportazione dei tatari di Crimea in Asia centrale (e conseguente accelerazione del processo di russificazione), divenne un semplice oblast della Repubblica socialista federativa sovietica russa.

Fu Nikita Krusciov, nel 1954, a volere la cessione della Crimea russa all’allora Repubblica socialista sovietica ucraina. Si trattò di un dono dei russi ai “fratelli minori” ucraini per commemorare i tre secoli del trattato di Pereyaslav, ossia la sottomissione dei cosacchi d’Ucraina allo zar di Mosca.

Un dono a buon mercato, quello di Krusciov. Al Cremlino non importava che la Crimea, con le sue basi strategiche inaccessibili, fosse russa o ucraina: contava solo che restasse in mani sovietiche, e che la nomenklatura potesse continuare a fare lì le sue ferie di lusso, tra amanti, scorpacciate di caviale e sbornie colossali (a base di vodka, ma anche di pregiati vini locali).

In realtà la Crimea è ancora oggi una delle mete vacanziere più gettonate dai russi. Grazie al suo clima mite, e alle sue splendide coste, questa “riviera” dell’Europa orientale è una terra promessa per chi trascorre mesi nelle gelide metropoli post-sovietiche. Nel 2011 l’hanno visitata circa sei milioni di turisti. Soprattutto ucraini, russi e bielorussi.

«Se il Vostro potere è la mitezza, allora la Russia ha bisogno del suo paradiso» scriveva a Caterina II, nel 1782, il principe Grigorij Potemkin, cercando di persuaderla all’annessione della Crimea con un miscuglio di argomentazioni religiose, personali e geopolitiche («con la Crimea sarà ottenuto il dominio sul Mar Nero»).

Benché siano trascorsi più di due secoli dalla fatidica lettera di Potemkin alla zarina, la Crimea continua a essere il paradiso della Russia. Un paradiso, però, poco ascetico e molto edonistico. Jalta ne è un esempio. Celebre per essere stata, nel 1945, la sede della conferenza con cui Stalin, Roosevelt e Churchill ridisegnarono l’Europa, è popolarissima tra i vacanzieri post-sovietici. Intrinsecamente mediterranea, è gemellata con Nizza e Pozzuoli. Nel 2006 il quotidiano New York Times l’ha descritta, con ironia da East Coast, come «un museo all’aria aperta dei costumi sociali dei nuovi russi e ucraini», dove si vedono «tycoon dal collo taurino che fumano Cohiba, e le loro scintillanti fidanzate in bilico su tacchi vertiginosi».

Non tutti, però, vanno in Crimea per crogiolarsi sotto il sole, o scommettere in qualche casinò pacchiano. C’è chi è interessato al sesso a buon mercato. Purtroppo l’intera Ucraina è ben nota ai turisti sessuali europei. Anzi, per il gruppo ucraino di protesta Femen sarebbe «il bordello d’Europa». Le femministe di Femen hanno fatto scalpore denudandosi in pubblico, ma sono riuscite a destare l’attenzione su un dramma ignorato: quello delle tante ucraine che si prostituiscono per sopravvivere, in un Paese dove il reddito pro capite è di circa 4000 dollari. In base a stime dell’Istituto ucraino di studi sociali, le donne che vendono il loro corpo sarebbero circa cinquantamila. Secondo un altro studio, il 39% delle prostitute non userebbe il preservativo con regolarità, e il 22% consumerebbe droghe.

Non stupisce che l’AIDS dilaghi. Almeno l’1% della popolazione adulta dell’Ucraina sarebbe sieropositivo: forse il dato peggiore dell’intero continente europeo. La Repubblica autonoma di Crimea e Sebastopoli risulterebbero tra le aree più colpite. Negli ultimi anni le autorità hanno cercato di contrastare il fenomeno con più energia e impegno, ma la battaglia è difficile, le risorse limitate.

C’è poi un’altra piaga che affligge la Crimea, e l’Ucraina tutta. La corruzione. Endemica come la malaria in altre latitudini, tocca livelli inauditi anche per un Paese post-sovietico. Nell’indice di corruzione percepita elaborato da Transparency International, l’Ucraina è al 152esimo posto; riesce cioè a far peggio di Nigeria e Russia, nazioni note per il degrado morale di una grossa fetta del loro settore pubblico.

In Ucraina la corruzione colpisce sia l’economia, sia la pubblica amministrazione e i partiti. Nonostante la (fallita?) Rivoluzione arancione del 2004, e i proclami di avvicinamento all’Europa, la situazione è grave. Quasi come ai tempi della cleptocrazia di Leonid Kučma, il presidente autoritario al potere dal 1994 al 2005.

E in effetti si ha la sensazione che il passato non passi mai, in Ucraina. E ancor di più a Sebastopoli, capitale spirituale della Crimea. Città di antiche origini greche, fu rifondata da Caterina II nel 1783. Trae la sua linfa vitale dalle acque del Mar Nero. Eppure guarda alla Russia, verso cui è sempre stata stoicamente fedele. Come ai tempi eroici della guerra di Crimea, durante l’assedio descritto da Lev Tolstoj ne “I racconti di Sebastopoli”. O come nella Seconda Guerra Mondiale, quando ad assediarla erano gli invasori tedeschi.

A Sebastopoli il 72% della popolazione è orgogliosamente russo. E in effetti la storia, russa o sovietica che sia, intride persino la toponomastica della città: ci sono distretto Leninskiy, strada Eroi di Stalingrado, corso Rivoluzione d’ottobre, strada Ammiraglio Makarov e così via.

Il legame tra la Russia e Sebastopoli, dunque, è emozionale e identitario. Cementato però da solidi interessi materiali. Di natura economica, per cominciare. Mosca è il primo investitore straniero in Crimea, seguita da Cipro (la piazza finanziaria offshore preferita dai russi). La presenza militare russa a Sebastopoli rappresenta una significativa entrata per l’economia locale, e un’importante fonte di occupazione. Lo stesso si può dire per i danarosi turisti russi. Che rimangono affascinati dai profili geometrici delle navi della Flotta del Mar Nero, e dalla danza dei gabbiani nell’aria pregna di salsedine.

Ci sono poi gli interessi politici, strettamente intrecciati a quelli economici. A differenza di altri Paesi ex-sovietici (come la Lettonia, dove il 28% della popolazione è russa), in Ucraina i cittadini di etnia russa continuano a essere l’ago della bilancia; non in ultimo grazie ai loro rapporti privilegiati con Mosca. E si sa: nell’ex Urss è imperativo avere peso politico, se si vuole conservare peso economico.

D’altra parte è anche attraverso la sua influenza sulla Crimea che Mosca esercita un forte ascendente sull’Ucraina. Secondo un autorevole sondaggio del 2009, quasi un terzo dei crimeani vorrebbe la riunificazione con la vecchia madrepatria. Simili velleità secessioniste inquietano molti cittadini di etnia ucraina. A Kiev, Odessa o Leopoli ci si ricorda bene dei primi anni Novanta, quando l’assemblea della Crimea invocava il ritorno alla Russia, e Mosca lasciava fare.

In un cablo del 2006 dall’ambasciata statunitense a Kiev, divulgato da WikiLeaks, si può leggere: «Benché ci sia sempre stato uno schiacciante sentimento filorusso tra gli abitanti della Crimea, gli sforzi sistematici e organizzati da parte di gruppi pro-russi sostenuti finanziariamente dalla Russia sono un fenomeno relativamente nuovo, secondo molti osservatori crimeani. Lytvynenko [funzionario del Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina] ha dichiarato che la grossa unità di intelligence della Flotta del Mar Nero, parte del GRU [l’intelligence militare russa], ha attivamente e deliberatamente incoraggiato gli attriti inter-etnici in Crimea per far sì che continuasse a covare uno stato di tensione. Ciò ha incluso il finanziamento a gruppi locali schierati con Mosca, campagne di informazione, e supporto logistico occasionale, incluso quello alle proteste anti-Nato a Feodosia tra maggio e giugno»

Tra tanti gruppi e gruppuscoli filorussi attivi in Crimea, il cablo riserva una certa attenzione alla Società russa della Crimea, influente e capillare organizzazione con oltre quindicimila membri; degna di nota, poi l’Unione dei cosacchi di Crimea, gruppo paramilitare ben armato, e con buoni agganci nelle forze di sicurezza locali. Senza dimenticare i media e le fondazioni filo-russe, che svolgono un importante ruolo nel consolidare e ampliare il consenso a favore di Mosca. Giustamente la Crimea è stata definita un laboratorio del soft power russo.

Tra i bersagli dei nazionalisti di etnia russa c’è la locale minoranza tatara: circa il 12% della popolazione crimeana. I tatari non sono cristiani ortodossi, ma musulmani. Discendono dai popoli turchi insediatisi in Crimea ai tempi del dominio mongolo sull’Eurasia. E infatti si considerano i veri crimeani, dato che la loro presenza nell’area risale al Medio Evo, quando erano il terrore di russi, ruteni e lituani. Lo stesso nome Crimea deriverebbe da una parola tatara, anche se loro chiamavano la terra avita, semplicemente, “isola verde” o “la nostra isola”.

Dopo la conquista imperiale della Crimea nel 1783, furono relegati ai margini della società russa. Alla fine del Diciannovesimo secolo lo scrittore Anton Čechov raccontava: «Quando si vive in Crimea tutto il tempo, si è in condizioni assai favorevoli per scrivere. Si è circondati da così tante genti diverse, genti come i tatari. Ognuno dei loro piccoli villaggi ha le sue leggende e il suo folklore».

Al termine della Seconda guerra mondiale Stalin fece deportare i tatari in Asia centrale: fu il sürgün, l’esilio genocidario. Che non riuscì però a scalfire il loro attaccamento alla Crimea, descritta in un vecchio samizdat come una terra lontana ma bellissima, dal profumo “di un filo d’erba secca”, “della lana di un agnello”, “del caffè fragrante”, “del grido lancinante di un gabbiano solitario”. 

Purtroppo la realtà non è poesia, ma prosa. Ritornati in massa dopo il crollo del comunismo, oggi i tatari vivono nelle aree più inospitali della Crimea, spesso in alloggi di fortuna. Reclamano (senza troppe possibilità di successo) le proprietà requisite dopo la loro deportazione, e un ruolo di spicco nella costruzione della nuova Repubblica autonoma. Tra di essi la disoccupazione infuria, e non è insolito che i più giovani prestino orecchio alle sirene dell’islam radicale, predicato da barbuti missionari arabi. Il fenomeno, recente e ancora limitato, spaventa molti crimeani di etnia russa o ucraina. In realtà la possibilità che la Crimea si trasformi in una Cecenia sul Mar Nero è molto bassa. I tatari integralisti sono una minoranza nella minoranza.

Più concreto il rischio di nuove tensioni tra Kiev e Simferopoli. La stampa ucraina chiama la Repubblica autonoma il “ventre molle” della nazione. Altrove la si definisce il “tallone d’Achille” di Kiev. E in effetti la Crimea potrebbe essere trasformata nella miccia per far esplodere l’Ucraina, se le relazioni con il gigante russo si deteriorassero in modo davvero drammatico (ad esempio, nel caso di un’adesione ucraina alla Nato). Ciò, tuttavia, appare improbabile.

Il Cremlino non vuole la disgregazione dell’Ucraina, o la secessione della Crimea. Cerca invece di preservare la sua influenza su quella che è sempre stata la gemma del suo impero (e degli imperi altrui: ai tempi della Confederazione polacco-lituana, nel XVII secolo, l’Ucraina era soprannominata “le Indie della Polonia”). Basti pensare che alla fine degli anni Ottanta la Repubblica socialista sovietica ucraina produceva la metà del carbone, un terzo dei motori e un quarto del grano dell’intera Unione sovietica.

Il comunismo è crollato, ma l’Ucraina rimane cruciale per Mosca. Attraverso i suoi confini transita gran parte dell’export energetico russo verso l’Europa occidentale. E grazie ai suoi 45 milioni di abitati, e a un PIL che a parità di potere d’acquisto supera i 300 miliardi di dollari, il mercato ucraino è strategico per molte aziende russe poco competitive sui mercati occidentali. La dipendenza è reciproca: la Russia è il primo partner commerciale del Paese, e il terzo investitore straniero dopo Stati Uniti e Germania.

Mosca sta facendo di tutto per rafforzare l’integrazione tra la sua economia e quella ucraina. È consapevole del ruolo strategico delle ingenti risorse naturali ucraine, in un mondo sempre più affamato di materie prime. E infatti vorrebbe l’Ucraina, l’ex «granaio dell’Urss», nell’unione doganale che ha creato con Bielorussia e Kazakistan. Un’idea che non sembra appassionare Kiev, dal 2008 membro della ben più importante Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
In Crimea la si pensa in modo diverso. La Russia (la R dell’acronimo BRIC) appare come un’economia di successo. Almeno se paragonata a quella ucraina, alle prese con finanze disastrate, infrastrutture fatiscenti e disoccupazione: il reddito pro capite russo è quasi il triplo di quello ucraino. Un motivo in più per cullare irrealistici sogni di secessione. O la nostalgia di un passato, quello sovietico, che non tornerà. 

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