Possibile che due nord del mondo estremamente civilizzati come Oslo e New York abbiano, delle umane colpe, una visione così radicalmente opposta, al punto da attribuire come massimo della pena allo stragista pazzo Breivik (77 persone uccise) poco più di un settimo di quanto gli States abbiano accollato a Bernie Madoff (che non aveva ucciso neppure un cardellino, ma truffato migliaia di risparmiatori)? E se finisce 150 anni a 21 per l’America, e quindi non c’è partita, si può concludere che il confronto è inquinato (truccato) alla radice da quell’espressione morale chiamata Etica, a cui ogni Paese, per storie, tradizioni, condizioni sociali, dà la sua autorevole e personalissima interpretazione?
Non sapremmo davvero dove collocare la povera Italia in questo contesto che, paradossalmente, offre proprio il segno della certezza della pena. Certezza preventiva e quindi benedetta, nel caso norvegese, che ha nel suo ordinamento i 21 anni di carcere (e avete visto anche in quali straordinarie condizioni carcerarie) come punto estremo e finale di ogni possibile atrocità. Si può discuterne per anni, sull’idea antica che ispirò quel legislatore a comporre una definizione giudiziaria di questo genere. E all’infinito scannarsi se l’evidente irrecuperabilità del soggetto in questione non ponga, con il tormento che merita, la questione centrale della rieducazione interiore del carcerato: ma cosa ci sarebbe da recuperare in un uomo di queste orrende dimensioni?
Evidentemente, lo sforzo culturale di certi popoli del nord Europa è quello di superare il trauma di aberrazioni evidenti pur di affermare il sacro principio di una possibile riabilitazione individuale e qui non c’è neppure un elemento decisamente cristiano a ispirarne il cammino. Ma certo, tra vent’anni, la Norvegia riavrà il suo Breivik cinquantaquattrenne nella piena disponibilità di fare shopping in centro città o di bersi una birra con gli amici (sempre, dice la legge, che abbia mostrato nel tempo segni di ravvedimento, ma intanto dopo “appena” dieci anni potrà usufruire dei primi permessi).
L’America che ha sotterrato Madoff sotto una tonnellata di carcere per non avere ucciso nessuno ma truffato sì, e tantissimi, fa del simbolo etico il suo tratto distintivo, elevando a esemplare sistema salvifico di punizione umana quel «buttare la chiave» a cui, idealmente ma non solo, noi italiani saremmo particolarmente affezionati. Anche questa è, a suo modo, una certezza della pena, socialmente opposta a quella norvegese, ma certezza rimane, pur senza la minima speranza di rieducazione. La speranza americana di rieducazione in realtà non contempla affatto il singolo detenuto, che viene lasciato alla lunga riflessione delle sue colpe, ma investe direttamente il libero cittadino, sul quale esercitare quella forma sottile ma precisa di trasferimento della paura. Noi ti facciamo vedere cosa ti succederà se sbagli: adesso decidi tu.
L’immagine della diversità tra Norvegia e Stati Uniti rivela anche il tratto distintivo dei popoli. I norvegesi mettono nel conto, probabilmente, che un (bel?) giorno potranno ritrovarsi Breivik come vicino di pianerottolo, gli americani, al contrario, sanno già da subito che Bernie Madoff, per loro, rimarrà sempre e soltanto un fantasma nei loro incubi. Tra due sistemi così complessi e diversi tra loro, la strettoia italiana non tiene in gran conto nessuna delle opzioni. Educatori non lo siamo mai stati, e la condizione carceraria, ad esempio, ne è la testimonianza palmare. Quanto alla certezza della pena, beh, il dibattito si è fatto negli anni persino stucchevole. Cercasi terza via, dunque. Ma qui da noi c’è la cultura necessaria per tracciarla?