Non sono cattolico e non sono cristiano. Lo scrivo non per scusarmi, ma perché se queste considerazioni a margine nel giorno della morte del Cardinale emerito Carlo Maria Martini hanno una ragione, è proprio nella percezione di sapere non solo a chi si parla o di chi si parla, ma da quale angolo si esercita il proprio diritto di parola.
Ho ascoltato in diverse occasioni il Cardinale Carlo Maria Martini. Non ho mai avuto la sensazione che fosse un uomo che parlasse al cuore. Non ho mai pensato che questo fosse un difetto. A lungo gli uomini e le donne di fede mi sono sembrate delle figure appagate, convinte che la esternazione e la comunicazione delle proprie convinzioni, o comunque delle proprie certezze, fosse un ottimo viatico per poter “contagiare” il prossimo, smarrito o incerto, comunque scettico. Ho sempre avvertito l’entusiasmo o la dimensione della potenza della fede come uno slogan gridato in un’epoca di incertezze, ma non mi sembravano fondati su solidi basi, se non un modo di esorcizzare il proprio smarrimento non confessato.
Carlo Maria Martini mi sembrava la testimonianza di un percorso diverso. Non so se alternativo a quello degli “entusiasti”, certamente molto lontano da quel vissuto di fede e dunque capace di misurarsi, senza compromessi con chi in quella fede non si riconosceva, ma anche con chi fede non aveva. Una figura pubblica che aveva passioni, curiosità, che non discuteva delle proprie convinzioni, persino freddo o “gelido” certamente preso dalla “freddezza” logica della propria speculazione, ma allo stesso tempo una figura piena di una curiosità (una condizione che lo accomunava a poiche altre figure pubbliche, di fede e non di fede) che lo spingeva a cercare altre cose, ad ascoltare e a meditare anche su vocabolari di altre lingue che non fossero la propria.
Quella ricerca non mi sembrava dettata dalla necessità di puntare a produrre un esperanto, una chiave universale in cui si annullassero tutte le differenze e tutte le distanze. Non c’era nessun ecumenismo né nessun indifferentismo in quella convinzione. Al contrario: in quella ricerca a me sembrava di percepire la necessità di trovare altre suggestioni, per provare a procedere, comunque non limitarsi a ripetere le proprie argomentazioni e “ragioni” ormai consolidate ma convinto che il proprio cosmo culturale da solo non è capace di produrre nuova riflessione se non ascolta anche altre parole, non per assimilarle (appunto non per creare un esperanto) ma per intravedere nuove suggestioni, misurarsi con sensibilità diverse, non dare per chiuso e definito il proprio “credo”. Per trovare le vie per formulare domande, più che trovare appaganti risposte.
Forse a molti è sembrato che quella esperienza appartenesse a un tempo, ovvero che fosse l’espressione di una fase storica della prosperità e che entrata in crisi o venuta meno quella condizione, fossero anche venute meno le premesse o la cornice perché quell’esperienza andasse avanti, trovasse altre opportunità. E forse a molti poi l’andata Gerusalemme e il ritorno a Gallarate sono sembrate delle scelte di esilio rispetto a un confronto interno che ha visto prevalere altre sensibilità.
A me è sembrato che in quelle scelte prevalesse un’idea di “servizio”, senza che per questo venissero meno le proprie convinzioni. Non è necessario cavalcare sempre il centro della scena. A un certo punto si può anche uscire di scena. Ma è indispensabile non perdere il senso della domanda. Una persona non è mai le risposte appaganti che si dà, ma le domande esigenti che si pone.