C’era una volta un Paese, il nostro, dove gli abitanti vivevano animati dalla voglia di sperimentare cose nuove; da questo spirito di intrapresa nacque quella moltitudine di imprese – dalle grandi fino agli artigiani – capaci di conquistare il mondo con la bellezza e precisione dei propri manufatti. Laddove c’era il Belpaese oggi c’è un’Italia che vive all’ombra della «montagna indebitata», che fa la fortuna dei rentier.
I dati di fatto di questa storia sono assai noti: il debito pubblico ha raggiunto la stratosferica cifra del 123 per cento rispetto al Pil, la ricchezza prodotta. Ancora: la recentissima indagine su «Le principali società italiane» (oltre duemila) dell’Ufficio studi di Mediobanca ci dice che nel 2011 investire in Btp decennali ha reso di più dell’attività d’impresa, con una differenza quantificata in 1,5 punti percentuali a favore dei Btp.
Siamo insomma ben lontani da quel lieto fine che, anche dopo le avversità, non manca mai nelle fiabe che leggiamo ai nostri figli. Nonostante ciò, è possibile intravedere nel Paese alcuni segni di vitalità. La stessa indagine di Mediobanca pone in evidenza come il macro-settore Made in Italy (alimentare, mobili, piastrelle, meccanica, elettrodomestici e tessile abbigliamento) sia l’unico a realizzare un rendimento ampiamente superiore (+6 punti percentuali) rispetto ai titoli di Stato decennali. Ancora: «Il viaggio in Italia» che Il Sole 24 Ore sta realizzando attraverso i 65 distretti industriali già visitati nel 1991-‘92 (7 in Emilia-Romagna) descrive, accanto ai punti di debolezza, non poche storie imprenditoriali e/o territoriali di successo pur in presenza di una globalizzazione dei mercati che non dà tregua.
Più volte, su queste colonne, abbiamo discusso la nuova politica industriale, che dovrebbe condurre anzitutto alla riorganizzazione – anche su base regionale – degli strumenti per la R&S, l’innovazione tecnologica e la formazione del capitale umano: quelli che Ignazio Visco in un suo bel libro del 2009 (Il Mulino) ha chiamato gli «investimenti in conoscenza»: vi ritorneremo sopra.
Oggigiorno la gravità della crisi chiama in gioco, crediamo, qualcosa di ancor più profondo: la cultura economica dominante e il processo di selezione della classe dirigente (delle élite, se vogliamo). Un tempo c’era l’orgoglio dettato dall’appartenenza a una tradizione culturale importante, dalla forte impronta umanistica e che tanto aveva contribuito all’edificazione dell’Europa unita, fonte di pace e prosperità: chiamiamolo il «Regno della Bandiera Dorata a Dodici Stelle». Cammin facendo è subentrata la tendenza a piegarsi alle mode altrui, importando a scatola chiusa dal mondo anglosassone (in primis, dagli Stati Uniti) teorie economiche all’apparenza perfette. Questo sia nell’accademia sia nella business community: abbiamo visto com’è andata a finire.
Ne hanno parlato di recente due personalità non certo sospettabili di nutrire sentimenti anti-mercato, come Guido Roberto Vitale («Il mercato ha fallito, liberisti ammettete i vostri errori», Linkiesta.it) e Giovanni Sartori («Il lavoro che dà ricchezza», Corriere della Sera, 10 agosto). Da qui occorre ripartire, eliminando gli attuali squilibri finanziari e ridando valore all’economia che produce beni e merci, ossia quella che davvero «fabbrica» la crescita. Sul piano scientifico e culturale tutto ciò significa – come osservato da Romano Prodi all’«East Forum» di UniCredit – attribuire nuovamente la dignità che avevano un tempo agli studi economici empirici, frutto di «ricerche sul campo» sui settori industriali e volti a conoscere «dal di dentro» come le imprese nascono, crescono e a volte muoiono.
Ora, ben vengano i piani per ridurre la montagna indebitata vendendo e valorizzando sia gli immensi possedimenti e palazzi che l’argenteria di famiglia del Belpaese. Tuttavia la ricchezza tornerà a crescere in maniera non effimera solo se la manifattura – con tutto ciò che essa muove nei servizi (trasporti e logistica, banche e assicurazioni, telecomunicazioni e informatica, ricerca e formazione, etc.) – riconquisterà il posto che le spetta. Compito difficile – al limite dell’impossibile, con la sfida asiatica dentro le mura di casa – eppure indispensabile nell’Italia d’oggi. Da un’Emilia Romagna gravemente ferita dal terremoto in alcune delle sue strutture produttive di punta, l’Italia ha tratto l’immagine di una comunità molto di più che laboriosa: che non si arrende.
Ma non possiamo fermarci qui. È un tempo, questo, nel quale una comunità fatta così deve essere in grado di far sentire la sua voce anche sui piani, più profondi, prima evocati: la cultura economica e il processo di formazione delle élite. Possiamo permetterci, non tanto come Regione ma come Paese a tuttotondo, un discorso pubblico stretto fra l’emergenza finanziaria e la politica politicante? Ha scritto giustamente Corrado Stajano: «La dignità ritrovata con Monti e i giochini dei vecchi partiti» (Corriere della Sera, 2 agosto).
E di ciò che sta nel mezzo – l’economia «reale», fatta di persone e famiglie, imprese, imprenditori e lavoratori – chi se ne occupa? Chi ha idee e coraggio è su questo che dovrebbe cimentarsi, lasciando ad altri i vecchi discorsi sui «nuovi» contenitori politici che mai nulla hanno spostato nelle condizioni di vita e lavoro della generalità dei cittadini.