Bersani inteso come Pier Luigi, il candidatissimo a Palazzo Chigi, ha tre problemi. Il principale alleato potenziale a sinistra, Nichi Vendola, gli dice dalla ridente Vasto che deve ribaltare l’agenda Monti, cioè rinnegare tutto di se stesso, come partito e come esperienza personale di uomo di governo lenzuolante; il principale alleato potenziale di centro, Pier Ferdinando Casini, dovrà trasmettergli il messaggio del Papa, influente personalità del mondo cattolico e leader ideologico di molti cristiani e cattolici moderati, appena pervenuto in Castel Gandolfo: ci si sposa tra maschietti e femminucce, per noti motivi; i suoi sostenitori bersaniani giovani, terzo problema, non vogliono fare una faticaccia per far scivolare un cuscino sotto le chiappe dei soliti Veltroni e D’Alema; il potere, se se ne sentirà l’odore dopo la lotta mortale con il Matteo Renzi, se lo vorrebbero prendere loro, in una logica neolaburista ma di sinistra, basta con il blairismo, e vorrebbero esercitarlo più o meno in esclusiva.
Bersani è il più quotato a entrare a palazzo, a questo giro, e per ragioni note. Ma per adesso è un salto nel buio. E lui stesso fa poco per accendere almeno una lampadina e illuminare la scena. Credo di sapere perché faccia così poco, e perché la sua candidatura sia non tanto un’ipotesi di guida alla ricerca del consenso ma la risultante incerta di fattori che cambiano ogni giorno. Il problema non è che nell’elusività si sopravvive e la si sfanga, meglio ambigui che impiccati a schemi troppo rigidi, specie quando si tratti di alleanze. No, il problema è nella natura della sua leadership, come si può vedere tutte le volte che lo si incrocia in un talk show o se ne osservano i movimenti pubblici.
Bersani è un presidente di Regione, è un ministro, è un formidabile uomo di squadra in un partito post comunista, sarebbe un broker di grande successo in economia o in finanza: è affidabile, simpatico, pratico, ma è un numero uno? Questo Bersani lo intuisce. Sa che Veltroni non ha idea nemmeno di che cosa parla quando discute un problema di merito, cinema a parte. Sa che D’Alema scavalca con totale cinismo qualunque garbuglio costituito da fatti per azzeccare una combinazione di potere vincente. Sa che Renzi è molto forte come uomo immagine ma non ha ancora il peso specifico di chi ambisca a gestire le ormai scarse sostanze degli italiani e le loro preoccupazioni da posizioni di governo. Ma ciascuno di questi supereroi, di qualunque generazione sia, ha una cosa in più rispetto a lui: il quid.
Non intendo essere offensivo. Bersani fa il segretario ormai da quattro anni con scrupolo e anche con qualche elemento di civiltà e di stile in più rispetto al passato. E’ un po’ guascone e proverbiale, invece dovrebbe mostrarsi coraggioso e quel tanto profetico che è necessario in un mestieraccio visionario come la politica, insomma dovrebbe trovarsi qualcosa da dire di più impegnativo che non sia il popolaresco “lavoro ben fatto”. Ma al fondo sta sempre quel tema fatale del “dolore” in politica. Berlusconi ha dominato per vent’anni l’immaginazione degli italiani per tanti motivi, il principale dei quali è che se l’è giocata e combattuta tutta in prima persona, la partita. Obama rischia di vincere dopo quattro anni un po’ così, e molto deludenti, e solo perché resta un tipo di cui si può raccontare la storia personale con qualche emozione. Non voglio usare la parola narrazione, anzi vorrei arrestare e condannare a dieci anni di galera chi se ne serve a cazzo di cane, ma più o meno di quello si tratta. A parte le parafarmacie, rispettabilissime, e gli uffici postali, di che parla la storia di Pier Luigi Bersani?