Come si fa a ripagare i debiti di una società senza metterci un euro e mantenendo il controllo? Nelle ultime settimane se lo sono chiesti il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera e, a proposito della partecipata Rcs, i vertici di Piazzetta Cuccia. Un quesito che molto probabilmente sarà affrontato oggi nell’ambito dei rispettivi consigli di amministrazione – Mediobanca e Camfin, la scatola che controlla il gruppo della Bicocca – previsti per oggi. In entrambi i casi pare che la risposta sarà uno strumento che sembrava passato di moda poiché non più conteggiabile, in base alle regole di Basilea III, nel novero degli attivi depositabili presso la Bce come collaterale in cambio di liquidità a un tasso agevolato: le obbligazioni convertibili. Si tratta di bond che garantiscono una cedola di interessi periodica e prevedono un’opzione di conversione in azioni al verificarsi di determinate condizioni. Un’opzione: quindi, una facoltà che l’investitore potrà esercitare a suo piacimento, non un obbligo.
Il vantaggio per l’emittente è duplice: si finanzia a un tasso inferiore al mercato, e in caso di conversione, il suo capitale aumenta. Se il titolo va bene, l’investitore esercita l’opzione e ottiene un rendimento superiore all’obbligazione, mentre se l’azione si deprezza gli rimane comunque un rendimento minimo garantito. «I bond convertibili rappresentano una categoria d’investimento che offre un rendimento stabile e un buon livello di protezione quando il mercato scende, e al contempo la possibilità di partecipare al rally delle azioni. Caratteristiche attraenti in un contesto come l’attuale, dove rimangono ancora pesanti incertezze. Le nuove emissioni dovrebbero garantire inoltre rendimenti elevati e un’interessante esposizione alle azioni sottovalutate», spiega a Linkiesta Léonard Vinville, gestore del fondo Global Convertibles di M&G (+3,19% da un anno a questa parte, dati Morningstar). Gli fa eco Davide Basile, ex Morgan Stanley ora a capo del fondo Global convertibles di Rwc: «I convertibili rappresentano un valido modo per diversificare la propria esposizione ai mercati, dal momento che offrono una certa stabilità e mantenimento del capitale per via del loro “floor” (livello minimo oltre il quale l’investimento non può scendere, ndr), consentendo allo stesso tempo di approfittare dei rialzi quando le azioni salgono. Ovviamente non sono esenti da rischi dei quali gli investitori devono essere consapevoli, come del resto per ogni strumento finanzario».
Tronchetti Provera detiene il 6,4% del gruppo della Bicocca attraverso varie scatole societarie – Gpi Spa (di cui ha il 57,52% tramite la società in accomandita di famiglia, la Mtp & C.) controlla il 42,65% di Camfin, che a sua volta possiede il 26,2% di Pirelli – ed è chiamato a rinnovare i 137 milioni di finanziamenti che scadono entro fine anno. Come fare? Le vie sono due. O un aumento di capitale, come vorrebbe la famiglia genovese dei Malacalza, soci sia in Gpi sia in Camfin. Oppure, per l’appunto, un prestito convertibile sul 6% delle azioni Pirelli possedute da Camfin al di fuori del patto di sindacato (sottoscritto dal proverbiale salotto buono: Mediobanca Fondiaria Sai, Generali, Allianz e Intesa Sanpaolo), per una cifra pari a 150 milioni di euro, stando ai rumors. «Bisogna guardare i fondamentali dell’emittente», spiega Alessandro Frigerio di Rmj Sgr. «In questo caso infatti si compra un bond della Camfin, che ha come sottostante il titolo Pirelli. Sicuramente, se il titolo sale, si può beneficiare dei rialzi, ma non bisogna dimenticare che l’emittente è Camfin, e non Pirelli».
L’ipostesi convertibile è la preferita delle banche, per le medesime ragioni di quelle del patto di sindacato di Rcs, casa editrice del Corriere della Sera – che vede Mediobanca tra i principali azionisti al 14,2% assieme all’imprenditore della sanità privata lombarda Giuseppe Rotelli. Evitare di mettere mano al portafoglio per rimpinguare il capitale e guadagnare tempo per affrontare decisioni di cruciale importanza come il rinnovo del patto di sindacato tra Fiat, Intesa, Mediobanca, e Unipol dopo l’acquisizione di Fon-Sai. Secondo la ricostruzione del Sole 24 Ore, la strada maestra sarebbe proprio un bond convertibile in più rate, a seconda delle esigenze del piano per ridurre il debito da 1 miliardo di euro che grava sulle esili spalle della società. Almeno fino alla fine del 2013, quando scadranno linee di credito per 1 miliardo di euro.
«In Italia le emissioni convertibili si sono principalmente focalizzate sul settore finanziario. Nel nostro approccio d’investimento preferiamo gli emittenti di cui possiamo valutare la qualità del sottostante – dice ancora Vinville – ad esempio abbiamo in portafoglio gli strumenti emessi da Sias, società che si occupa di infrastrutture in Nord Italia (controllata dalla famiglia Gavio, ndr). Ci piace per la qualità dei suoi attivi e la profittabilità». Due casi particolari sono l’emissione “cashes” di Unicredit del 2009, da 3 miliardi di euro, e i «Fresh» da 700 milioni del Monte dei Paschi, che risalgono al 2003, dove la ratio era la stessa: non diluire le fondazioni bancarie azioniste.
Sui mercati regolamentati i bond convertibili sono sostanzialmente illiquidi. Ad esempio, le obbligazioni subordinate della Bper con scadenza alla fine di quest’anno e cedola semestrale del 3,7% lordo, emesse nel 2006 per 200 milioni di euro, sono scambiate di poco sopra la parità (100,15 i massimi) e per circa 10 milioni di euro giornalieri (250 milioni l’offerta iniziale). Ma bisogna tenere presente che il grosso dei volumi si forma sulle piattaforme non regolamentate (over the counter). Stesso discorso per il convertibile da 639 milioni di euro di Ubi Banca emesso nel 2009 e con scadenza a luglio 2013 e un rendimento lordo annuo del 5,75 per cento.
Nel caso della Bper il rapporto di conversione è 1 a 1, con un valore nominale delle azioni di 3 euro (16 euro per le obbligazioni) mentre oggi il titolo quota 4,42. Stesso rapporto di conersione anche nel caso della banca bergamasca, mentre il valore nominale delle azioni è di 2,5 euro contro 12,5 delle obbligazioni. Ora come ora non conviene tramutarle in azioni. E, con i chiari di luna delle Borse e dell’economia, nulla garantisce che l’esito sarà diverso per Rcs come per Camfin. L’unica certezza è che alla scadenza il debito, convertibile o no, sarà ancora lì: ad aspettare il rimborso. Il rischio, insomma, è che il convertibile si riveli solo una trovata per prendere tempo, rinviando la ricapitalizzazione.