Quella di Paolo Villaggio era una semplice provocazione oppure credeva realmente in quello che diceva? Per il comico genovese i Giochi paralimpici “fanno tristezza”, sono “fastidiosi”, costituiscono la “rappresentazione di alcune disgrazie” ed esaltano una “finta pietà”.
Affermazioni alle quali è seguita una levata di scudi, dai dirigenti sportivi agli atleti ai protagonisti. «La differenza tra i nostri Giochi e quelli dei normodotati è la passione. Venga a vedere il villaggio, le gare, non parli da lontano, venga e veda». La risposta è targata Assunta Legnante una che fino a quattro anni fa era normodotata ed ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino fallendo la sua gara nel getto del peso. Mentre lanciava l’attrezzo aveva di fronte il sogno di una vita, il braciere olimpico. E si è completamente distratta. Poi un glaucoma, una malattia degenerativa dell’occhio, ha fatto il suo corso ed oggi si ritrova, da ipovedente, a gareggiare alle paralimpiadi di Pechino. Forse potrà ascoltare l’inno di Mameli che soltanto una volta nella vita “normale” le è riuscito sentire, agli Europei indoor di Birmingham quando vinse la medaglia d’oro. E sicuramente le faranno comodo anche i 75.000 euro di premio del Coni perché lei con 400 euro di pensione di invalidità proprio non riesce a vivere.
La grande giostra dei Giochi paralimpici è partita con la benedizione della Regina Elisabetta. Di meglio non ci poteva essere. Una risposta. La risposta più grande della monarchia inglese che aveva affidato al principino Henry, la pecora nera della famiglia, la poltrona d’onore dei Giochi Olimpici ed ha scelto Her Majesty per quelli meno esaltati da stampa e opinione pubblica. Sotto la sua corona sono sfilate 166 nazioni partecipanti (per 16 stati come l’Albania, Antigua, Malawi e Ruanda sarà la prima volta) e i 4.200 atleti. Nella passata olimpiade cinese (2008) furono 3.951; ad Atene (2004) 3.808 atleti; a Sydney (2000) 3.843; ad Atlanta (1996) 3.310; a Barcellona (1992) 3.020. I Paesi sono passati da 83 a 166.
Se Londra ha avuto il merito di mettere l’atleta al centro delle Olimpiadi, Londra si è appropriata anche un altro primato. Ha certificato l’affermazione del movimento paralimpico. Che oggi ha le proprie stelle come Oscar Pistorius, i campioni a caccia di leggenda come Alex Zanardi, le multinazionali capaci di interessi economici altissimi per produrre protesi personalizzate, carrozzine speciali, materiali innovativi, atleti fermati per doping come l’azzurro Fabrizio Macchi frequentatore dello studio del medico nemico pubblico numero uno, quel Michele Ferrari per il quale si è inguaiato anche Alex Schwazer il marciatore olimpionico a Pechino e caduto nella polvere alla vigilia di Londra. In una parola i Giochi paralimpici hanno acquistato tutta quella normalità dei Giochi olimpici. Finanche gli stadi pieni con oltre 2 milioni di biglietti venduti per la verità anche a prezzi contenuti nel solco di ispirare una generazione motto di Londra 2012.
Se per i normodotati è spingere i ragazzi a fare sport, qui è spingere a uscire dalle case e diventare attivi, pensando a Ludwing Guttmann, un ebreo tedesco scappato dalla Germania che accoglieva i reduci della seconda guerra mondiale a Stoke Mandeville, non lontano da Londra. Diceva loro: in attesa della chiamata di Dio rendetevi utili. Il problema era la depressione che seguiva una menomazione fisica. Serviva uno shock proveniente dall’esterno, una forte motivazione: nacque lo sport per i disabili.
Una molla incredibile che ha spinto Cecilia Camellini, cieca dalla nascita a cominciare a nuotare a tre anni e a vincere a quindici fino a conquistare due argenti a Pechino e la prima medaglia d’oro italiana venerdì a Londra su 100 stile libero, bissata oggi sui 50. Oppure Oxana Corso, romana, classe ’95. Della sua vita non si sa nulla fino ai tre anni. Nata a San Pietroburgo e poi adottata da una coppia romana. La sua disabilità cerebrale le crea problemi nei movimenti. Ha vinto l’argento nei 200 metri. I Giochi di Londra sono i primi ad essere normali, con tutto quello che ne consegue. Ed in fondo è proprio quello che vogliono gli atleti convenuti da ogni parte del mondo. Sono gare, come tante altre con lo stesso spirito della bandiera a cinque cerchi e le stesse contraddizioni.