È stato probabilmente l’edificio abusivo più famoso d’Italia. Quello che ha portato alla coniazione del termine, poi divenuto celebre, di “ecomostro”. «Un misfatto ecologico esemplare» secondo la definizione datane da Antonio Cederna nel 1972. Si tratta dell’amalfitana Hotel, meglio noto come Fuenti, un albergo degno, forse, di Miami per volumi (34000 metri cubi di cemento, 24 metri di altezza, 2000 metri quadri di superficie) e stile architettonico, ma incastonato nel bel mezzo della Costiera Amalfitana, tra perle celebri in tutto il mondo come Positano, Amalfi e Vietri. Un pugno in un occhio che deturpava uno dei tratti di costa più belli della penisola, Patrimonio dell’umanità Unesco dal 1997. Costruito nel ’71 in violazione di ogni vincolo paesaggistico e abbattuto solo nel 1999, al termine di una lunghissima vicenda giudiziaria che ha visto contrapposte società ambientaliste e proprietà.
Vista così sembrerebbe solo una brutta vicenda di malaffare e scempio del paesaggio, una delle tante che hanno segnato la storia italiana del dopoguerra. Da cui trarre insegnamento, certo, ma della quale rallegrarsi per l’esito positivo. E invece il Fuenti non può ancora essere accantonato nelle brutture del passato. Perché ancora oggi, a distanza di oltre 40 anni dalla costruzione dell’albergo e a 13 dal suo abbattimento, la cava di Fuenti resta nel limbo, in attesa del pronunciamento delle autorità giudiziaria. Da due anni sotto sequestro c’è il “Parco del Fuenti”, il progetto di ripristino che la famiglia Mazzitelli, la stessa che nel ’68 diede il via alla costruzione dell’albergo, ha avviato per riqualificare la zona. Anche il nuovo progetto, che prevedeva la realizzazione di parcheggi coperti, un ristorante, una enoteca con vini campani, un centro benessere, uno stabilimento balneare e percorsi nel verde, presenta secondo la magistratura gravi irregolarità, tali da richiedere l’imposizione dei sigilli.
A riportare di attualità la questione è stata Maria Teresa Mazzitelli, architetto e proprietaria di Tenuta Fuenti, rinviata a giudizio (insieme al progettista e direttore dei lavori, al titolare dell’impresa esecutrice e al responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Vietri sul Mare) dalla Procura di Salerno, che in pratica contesta l’applicabilità dell’articolo 22 sul restauro del paesaggio (legge regionale 35/87) al progetto del Parco di Fuenti. In una lettera aperta inviata al Corriere del Mezzogiorno la Mazzitelli si è definita una vittima della burocrazia. «La mia – ha scritto – è una storia emblematica di come in Italia sia difficile cambiare, fidarsi delle leggi, non restare impigliati nei meandri della burocrazia e nelle maglie di quanti continuano a voler sfruttare un nome, il Fuenti, per averne, di riflesso, immeritata notorietà, nel bene e nel male (…). Ho speso diversi milioni di euro per un riscatto d’immagine e per fare onore ad un territorio meraviglioso e che amo, perché volevo trasformare il “Mostro” in Parco. Una favola che non si realizzerà mai?».
In particolare la Mazzitelli ricorda che il nuovo progetto è stato approvato nella Conferenza dei servizi tenuta nel 2004 per il “Restauro paesaggistico e ambientale dell’area Fuenti”, trovando il via libera di tutte le istituzioni dotate di parere vincolante, compreso quello della Regione, allora governata da Antonio Bassolino, della soprintendenza e della Provincia di Salerno e del Comune di Vietri sul mare. «Scusate – si conclude la lettera – ma se ho sbagliato io, hanno sbagliato tutti quelli che hanno approvato il progetto in conferenza di servizi. O nessuno. Su questo, credo, bisognerebbe discutere, per non far scappare a gambe levate gli imprenditori italiani».
Fatto sta che tra violazioni di legge, polemiche, ricorsi e sigilli, la zona del Fuenti rimane bloccata quasi mezzo secolo. Una situazione di stallo che non giova a nessuno, e incrina anche le certezze del fronte ambientalista. Tra questi c’è Legambiente, un “nemico” storico della famiglia Mazzitelli, che però dal 2004 in poi ha espresso manifestamente il proprio sostegno al progetto del Parco del Fuenti. «Dal nostro punto di vista – spiega a Linkiesta Michele Buponomo, presidente di Legambiente Campania – era giusto che ci fosse la possibilità di un’azione di “riqualificazione funzionale” dei luoghi, visto che non era assolutamente possibile ripristinarli. In conferenza dei servizi ci siamo espressi sulla scorta di documentazioni forniti. Diverso è se il problema è di discordanza di difformità tra quanto realizzato e quanto manifestato nel progetto. Ma questo non ha niente a che fare con la conferenza dei servizi, noi ci siamo espresso solo su quanto proposto in quell’occasione». In sintesi, secondo Buonomo «è necessario che nel nostro Paese vi sia un minimo di certezza, in un senso o nell’altro, mi sembra necessario trovare degli strumenti che consentano a tutti di avere la certezza del diritto e delle azioni che si intraprendono. Altrimenti non se ne viene mai fuori, come in questo caso. E nell’interesse di tutti non è possibile procrastinare le vicende per così tanto tempo».
Una lettura, questa, che non convince tutti. In particolare Italia Nostra, che è stata una delle principali protagoniste della lunga battaglia per l’abbattimento dell’ecomostro. «La proprietà che abbatte per abusivismo – spiega a Linkiesta Raffaella Di Leo, presidente della sezione salernitana dell’associazione – ha l’obbligo di ripristinare lo stato antecedente. Naturalmente in questo caso, essendo stato effettuato un massiccio sbancamento della roccia, non era possibile un vero ripristino, che invece andava inteso come intervento di rinaturalizzazione dell’area. Invece cosa hanno fatto? Hanno proposto la ricostruzione del profilo della montagna mediante un’enorme struttura di cemento armato sulla quale poggiare terreno e fare i terrazzamenti e parcheggi. L’idea di costruire una finta roccia in cemento armato rappresenta una follia, perché il cemento armato richiede manutenzione, non è sostenibile nel lungo periodo. E noi in quell’ottica dobbiamo ragionare».
Già nel corso della conferenza dei servizi del 2004 Italia Nostra aveva espresso tutte le proprie perplessità nei confronti del nuovo progetto, spiegando che l’intero comprensorio interessato dalle opere ricade nella zona territoriale 1-a di tutela dell’ambiente naturale di I grado, in cui vi è l’obbligo di «assicurare l’inedificabilità sia privata che pubblica e di impedire ogni trasformazione del suolo». Esponendo dunque non generiche esigenze di tutela del paesaggio, ma sottolineando la violazione delle leggi regionali e delle norme tecniche di ingegneria naturalistica.
In pratica, secondo Di Leo, «in questo caso la burocrazia non c’entra nulla. Non si parla di ritardi dovuti alla macchina amministrativa, bensì di questioni di legalità, in quanto sono state apportate varianti che sono in contrasto con la legge regionale. A me pare che si stia vivendo la stessa vicenda di quarant’anni fa, quella che portò alla realizzazione dell’albergo Fuenti. Anche allora, tra rottura di sigilli, discussioni sulle autorizzazioni e forzature varie, alla fine sono riusciti a realizzare tutto l’edificio e si è attesa la regolarizzazione ex post. Adesso si cerca di fare lo stesso percorso. Fortunatamente, però, i tempi sono cambiati: allora chi costruiva vinceva sempre, adesso non è più così».