26 maggio 1954: Giovannino Guareschi entra nel carcere San Francesco di Parma per uscirne il 4 luglio dell’anno successivo, dopo 409 trascorsi sotto la più stretta sorveglianza. È l’atto che chiude quella che il giornalista parmense aveva definito la vicenda del “Ta-pum del cecchino”: lo scontro con Alcide De Gasperi, prima verbale dalle colonne del Candido, in seguito ad alcune scelte strategiche del leader democristiano che puntava ad aprire a sinistra, poi a colpi di documenti in tribunale per diffamazione a mezzo stampa.
Una storia dell’Italia repubblicana, la cui costituzione all’articolo 21 tutela la libertà di stampa. Il 24 e il 31 gennaio 1954 sul settimanale diretto da Guareschi vennero pubblicate due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e firmate da De Gasperi, che ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano: due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, chiedendo il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma, come l’acquedotto, «per infrangere l’ultima resistenza morale del popolo romano» nei confronti di fascisti e truppe tedesche.
Materiale scottante, sottoposto a Guareschi da Enrico De Toma, nome che ritorna anche nella storia che riguarda il carteggio Benito Mussolini – Winston Churchill e che aveva prestato servizio come sottotenente della Guardia nazionale repubblicana ai tempi della Repubblica di Salò. Le lettere vennero riprodotte (Indro Montanelli ha più volte ripercorso i giorni precedenti alla loro pubblicazione, ricordando come in qualsiasi modo avesse cercato di convincere il collega a desistere e rivolgendosi direttamente all’editore del Candido, Rizzoli) e agli inizi del febbraio ’54 De Gasperi sporse querela. Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a dodici mesi di carcere per diffamazione.
Nel frattempo l’abitazione milanese di Guareschi in via Righi era stata visitata due volte da alcuni topi di appartamento e nella seconda occasione, nel mese di marzo, gli venne rubata la macchina da scrivere dalla quale era nata la saga di Don Camillo e Peppone e furono ispezionate alcune cartellette contenenti i documenti legati alla vicenda del “Ta-pum”, ma le due lettere incriminate non poterono essere trovate, dal momento che le custodiva De Toma in Svizzera. L’autore parmigiano non ricorse in appello e De Gasperi commentò la sentenza dichiarando: «Sono stato in galera anch’io e ci può andare anche Guareschi».
«In tutta questa faccenda hanno tenuto conto dell'”alibi morale” di De Gasperi e non si è neppure ammesso che io possegga un “alibi morale”. Quarantacinque o quarantasei anni di vita pubblica, di lavoro onesto non sono un luminoso “alibi morale”?», si chiedeva il giornalista sul Candido del 25 aprile. Non contestando la sentenza («È regolare, ha il crisma della legalità»), contestava «il costume». «Mi hanno negato ogni prova che potesse servire a dimostrare che io non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato». Perché in tribunale, la perizia calligrafica avanzata dalla difesa sulle due lettere non venne mai ammessa. Al contrario, nel 1956, nel corso del processo intentato in contumacia contro De Toma, il tribunale di Milano affidò a un collegio di tre periti l’esame delle due lettere negato due anni prima a Guareschi e la conclusione fu che «non esistevano prove tali da stabilire inequivocabilmente la falsità delle lettere».
A quel punto ancora il tribunale incaricò un quarto perito che ritenne le lettere «sicuramente false». Tra un’analisi e l’altra, il 17 dicembre 1958 i giudici dichiaranono estinto per amnistia il reato di falso e assolsero De Toma dall’accusa di truffa per insufficienza di prove, con l’ordine di distruggere i documenti. 409 nove giorni di carcere, dei quali rimangono alcuni ricordi come una fotografia scattata di nascosto che ritraeva Guareschi dietro alle sbarre, con i consueti baffi che ornavano anche la sua firma. Ai dodici mesi di condanna si aggiunsero gli arretrati: già nel 1950 era stato condannato per diffamazione in seguito alla pubblicazione di una vignetta del collega Carlo Manzoni dove figuravano due file di bottiglie bene allineate recanti, in collage, l’etichetta “Nebiolo – Poderi del Senatore Luigi Einaudi” e che facevano “da corazzieri” al presidente della Repubblica Einaudi, disegnato sul fondo. Assolti in prima istanza, i due in appello furono condannati a 8 mesi di reclusione per vilipendio al Capo dello stato e non scontarono la pena l’applicazione della libertà condizionale, ma il conto gli fu presentato alla prima occasione giusta. Giovannino tornò definitivamente un uomo e un giornalista libero solo il 26 gennaio 1956, giorno della scadenza della libertà vigilata alla quale fu sottoposto una volta rientrato alla base, nella sua casa di Roncole Verdi.
«Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione», affermò orgoglioso alla vigilia del suo ingresso in carcere, dove si presentò con la sacca che lo aveva accompagnato durante la prigionia nei campi tedeschi come Internato militare italiano dopo l’8 settembre 1943. Dalla Polonia rientrò con un fisico duramente provato, ma pronto a ricominciare con accanto la moglie Ennia, chiamata Margherita nei suoi racconti, e i figli Alberto e Carlotta. I giorni di Parma invece ne segnarono tremendamente il fisico e l’animo. Ma il galantuomo che era in lui non se n’era andato: De Gasperì morì il 19 agosto 1954, mentre Guareschi scontava la condanna. «Mi ha invece rattristato – scrisse – la morte improvvisa di quel poveretto. Io, alla mia uscita, avrei voluto trovarlo sano e potentissimo come l’avevo lasciato: ma inchiniamoci ai Decreti del Padreterno».