Trenta lingue in una scuola pubblica catalana multietnica, e funziona

Trenta lingue in una scuola pubblica catalana multietnica, e funziona

BARCELLONA — È una via stretta, lunga e silenziosa, Carrer dels Àngels, nell’affollato quartier del Raval, dove la densità raddoppia. Nasce da carrer del Carme e taglia il colorato quartiere multietnico congiungendosi con il Macba, il prestigioso Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona. Più in là, a quattrocento metri c’è un ramo della chiassosa Rambla che tracima di umanità giorno e notte, più a sud il porto che a ogni ora scarica i forzati della crociera. In questa piccola arteria a senso unico, fuori dalle rotte turistiche, al numero 1/bis si ripete da quindici anni, all’interno di un elegante palazzo anni Trenta, un perfetto esperimento di convivenza sociale di cui Catalogna e Spagna vanno fiere.

È la Miquel Tarradell, una scuola pubblica che dà istruzione e accoglie 656 alunni, di età dai 12 ai 20 anni, dalle medie alle superiori. E benché sulle sue antiche pietre, di travertino rosa e granito grigio, sopra a due portoni di legno color smeraldo, svettino le scritte “maschi” e “femmine”, le classi sono miste e poliglotte. È, infatti, questa la particolarità della scuola: nove alunni su dieci hanno origini straniere, così nell’istituto si parlano non meno di trenta lingue differenti. Dal persiano al bengalese, dal cinese al filippino, dal “castellano” viziato e cantilenante del Sudamerica fino all’arabo. «Ma in alcuni casi la percentuale degli alunni stranieri è superiore al 90 per cento», dice a Linkiesta il preside dell’istituto Pedro Menéndez Arango. «Gli alunni delle medie e delle superiori nati fuori dalla Spagna o spagnoli, ma di genitori stranieri, sono 296. Poi ci sono altri 360 ragazzi che frequentano le classi dell’Istituto Tecnico di specializzazione. E anche qui la percentuale di stranieri è molto alta».

Lo statuto della Miquel Tarradell è un illuminante messaggio di pace universale: «Questa è una scuola pubblica, laica, pluralista che difende la libertà e l’eguaglianza secondo il principio di coeducazione, senza
discriminazione per razza né genere delle persone». E se poi, fin dalla sua apertura, l’istituto è diventato una Babele, dipende dal suo quartiere multietnico, ricco di botteghe e ristoranti arabi, asiatici, africani e del Cono Sur. Il primo giorno di scuola è uno spettacolo assistere a questa spumeggiante, coloratissima e multietnica onda di ragazzini che invade lo stretto marciapiede. È una piccola Onu, una palpitante città nella città che ha mille sapori. Alle 8 e 30 suona la campanella e in file ordinate, gli oltre cinquecento alunni conquistano l’ingresso: sono cinesi, filippini, marocchini, tunisini, siriani, egiziani, rumeni, sudamericani, pachistani, bengalesi e guineaiani. E tanti altri. Ognuno col suo stile, la sua lingua, il suo vestito colorato.

Quelli più in tiro sono i pachistani, con giacca, cravatta e capelli ordinati e lucenti di nero come se andassero a una festa religiosa da piccoli principi. Poi, ci sono i sudamericani, ruffiani e chiacchieroni, con la maglia “blaugrana” del Barça, le cuffiette nelle orecchie, le sneakers slacciate e gli ombelichi a vista per le ragazze. I filippini, timidi e silenziosi, se ne stanno in disparte con un’aria un po’ spaesata e le loro scarpe di lacca nera, mentre i cinesi chiassosi, vestiti di bianco, cercano un interprete sotto agli occhi delle ragazze marocchine che se la ridono dietro al velo colorato. Sono quasi tutti nati sul suolo iberico da genitori stranieri che rappresentano la «seconda generazione di immigrati», quella che non ha più una casa nel posto dove è venuta al mondo, ma che non si sente ancora parte del luogo dove ha scelto di vivere.

«Alcuni alunni svolgono un ruolo fondamentale per aiutare i professori con le numerose lingue. Fanno da interpreti ai nuovi arrivati, li aiutano nei primi giorni di orientamento e poi si mettono a disposizione. Molto spesso li usiamo ai colloqui tra docenti e genitori», aggiunge il preside. Ma come funziona questa piccola Babele didattica, che non è assolutamente un ghetto, ma un più che dignitoso istituto che ha vinto più volte premi di educazione? «L’istituto — spiega il preside — ha creato delle “classi di accoglienza” con venticinque bambini e due professori: si insegna la lingua e la cultura catalana, tutti nella stessa classe, indipendentemente dall’età e dal grado di istruzione. È un processo educativo di integrazione che può durare anche più del normale anno scolastico. Dipende dall’alunno e dalla sua velocità nell’apprendere la lingua. Noi analizziamo attentamente la formazione e l’educazione scolastica di ogni alunno, ci affidiamo anche a un servizio di tutor, in modo da seguire, anche individualmente il ragazzo fuori dall’orario scolastico. Organizziamo gruppi con insegnanti di sostegno, coinvolgendo i ragazzi in vari progetti, anche manuali, grazie anche all’aiuto dei servizi sociali e pedagogici del Comune di Barcellona».

Uno sforzo ammirevole che ha bisogno di molte risorse, in un momento difficile. Con gli ultimi tagli all’istruzione operati dal Governo conservatore di Mariano Rajoy, come voluto nel sanguinoso piano anti crisi dettato anche da Bruxelles, ogni anno alla Miquel Tarradell è sempre più difficile far quadrare i conti e trovare il personale adeguato. «Quest’anno abbiamo dovuto tagliare i fondi destinati a mini pc portatili con programmi di traduzione per gli alunni con problemi di apprendimento. Gli altri anni c’eravamo riusciti, grazie a un piccolo contributo dei genitori. Era una misura di “discriminazione positiva” rispetto agli altri alunni, perché noi crediamo fermamente nella necessità di compensare con più risorse quelle situazioni che sono socialmente e culturalmente sfavorevoli e penalizzanti».

E così alla Miquel Tarradel, ci si arrangia come si può e si chiede aiuto alla solidarietà degli altri alunni: se il nuovo arrivato è bengalese, allora gli si affianca un altro ragazzino bengalese, già promosso dalla classe d’ingresso, che traduce per lui e gli fa da tutor, aiutandolo nei compiti a casa. Se c’è un dodicenne che parla solo cinese, allora gli si cerca un compagno mandarino. La lingua insegnata è il catalano, poi fuori dalle classi, nel cortile della scuola, si apprende lo spagnolo che fa da collante tra tante culture diverse. E alla fine del ciclo, gli alunni della Tarradell, avranno imparato, oltre al catalano, anche la lingua del cortile, mantenendo la lingua madre parlata in famiglia: è un perfetto trilinguismo. A fine anno le pagelle non mietono studenti nelle classi di accoglienza: qui non ci sono promossi né bocciati e le valutazione sono di due sigle “PA” o “NM”, ovvero «progredisce adeguatamente» e «deve ancora migliorare». E solitamente, l’integrazione sociale e culturale, avviene dopo tre anni.

A 17 anni si lascia la scuola superiore, ma sono pochissimi i ragazzi di sangue straniero che optano per l’università: la media è di 4/5 alunni su cento. Tuttavia non è tutto così idilliaco alla Tarradell. I problemi di
integrazione ci sono, gli atti di bullismo e di violenza in passato hanno turbato la scuola, fino al punto di chiuderla per qualche mese. Giravano coltelli a serramanico e molti professori, minacciati dai bulli e costretti a più sacrifici, hanno chiesto il trasferimento. E il sovraffollamento delle classi non aiuta a mitigare il clima generale, oltre all’impossibilità di poter coinvolgere più di tanto i genitori degli allievi, spesso diffidenti, privi di istruzione, al limite della soglia di povertà e con nuclei familiari molto numerosi. Ed è allora che intervengono i “mediatori”, piccoli sceriffi che regolano il traffico nel cortile e negli animi, risolvendo piccole diatribe e rappacificando i contendenti.

«La mediazione dei conflitti, provocati dalle differenze culturali e caratteriali, come da piccoli atti di razzismo, è una parte importante del nostro modo di educare — spiega il preside Menéndez Arango — è una tecnica che utilizziamo fin dal 1997 e l’abbiamo consigliata anche ad altre scuole simili alla nostra. Consiste nel responsabilizzare e coinvolgere alcuni alunni più meritevoli e maturi. Con l’aiuto di pedagogisti gli insegniamo i metodi di mediazione e spieghiamo le ragioni di conflitto e tensione». Un mediatore interviene anche soltanto per stabilire se quello era gol o no e se una canzone araba sia più bella di una “bachata” caraibica: i litiganti si riuniscono col mediatore, lui ascolta con attenzione “le due campane”, prende appunti, poi, avanza una proposta di conciliazione, come un giudice di pace, in modo da evitargli un castigo più severo e penalizzante per le condotte. E il metodo funziona.

Vengono da Francia e Germania alla Miquel Tarradell per carpirne i segreti e i successi. Coinvolgere e mescolare il più possibile razze e culture dando vita, come per miracolo, a un modello educativo che rispetta e aiuta tutti e crea un clima di pacifica convivenza in questa scuola che, forse, in un futuro molto vicino, potremmo vedere con simili numeri anche a Roma, Milano o Torino. Con buona pace per i detrattori delle scuole multietniche, perché potrebbe essere proprio questo ciò che attende la società italiana: il futuro dell’integrazione ben stretto nelle mani dei ragazzi.

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