Per sostenere che avere un figlio all’interno di una coppia gay è un glorioso passo in avanti verso società più giuste e illuminate, generalmente si portano a esempio le situazioni riuscite bene, benissimo. E’ un metodo suggestivo ed evidentemente logico, ma nel caso delicato di una vita intera di un bambino con una coppia dello stesso sesso, anche le storie più riuscite possono non bastare. E non essere affatto decisive per affrontare con la serenità necessaria un problema di queste dimensioni. Si potrebbe persino concludere, con un pizzico di insolenza civile, che in certi casi non sono davvero storie «oneste» perché sentimentalmente sproporzionate.
In questi ultimi giorni, la stampa ci ha offerto la possibilità di conoscere vicende straordinarie di genitori omosessuali che hanno una vita felice con i loro bambini, avuti ovviamente fuori dalla coppia. «Pubblico» ha raccontato la storia di due meravigliosi papà italiani che vivono in Svizzera con tre figli (la stessa cicogna-donatrice ha bussato a casa in due occasioni diverse), l’Huffington quella di una bambina di 9 anni, Lisa Marie, nata da due mamme, che ha addirittura spedito una letterina decisa e serena ad «Avvenire» scritta di suo pugno («I bambini degli omosessuali non sono affatto strani: sanno scrivere, disegnare, imparare, giocare, eccetera…») in risposta a Giuseppe Di Mauro, presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale, il quale sosteneva come i bambini in questa condizione crescessero invece con molti più problemi.
Gli esempi, al di là dell’effetto di immediata suggestione emotiva, sono probabilmente il terreno più infido per un confronto alto e responsabile, perchè portano direttamente ad affrontare il tema della «Felicità», il cui anelito è uno dei diritti primari dell’uomo, evitando il percorso più accidentato, ma anche più responsabile, che è quello invece dell’«Accesso alla Felicità».
Di fronte a una coppia felice di padri o addirittura di fronte alla felicità così ben descritta proprio da una bambina di nove anni (da accogliere con le dovute accortezze in virtù dell’età), cosa potrebbero opporre coloro i quali hanno legittime perplessità rispetto al problema? Toccherebbe solo arretrare, prudentemente, cedendo il passo ai sentimenti: la felicità è sacra e non va sporcata, né messa in discussione. Ma possono bastare i (buoni) sentimenti a determinare quella sintesi virtuosa, che poi andrà tradotta in norme di legge, tra posizioni così diverse, se non antitetiche?
Ciò che forse va affrontato in questi casi è invece quel percorso molto accidentato e pieno di ansie che potremmo definire, appunto, «Accesso alla Felicità». E’ in questo territorio che si formerà, sperabilmente, una vera consapevolezza rispetto all’equilibrio di due persone, intese come coppia, a cui la natura negherebbe in radice lo status di procreatori. Ed è proprio nella scelta della forma scientifica più concreta e diretta, che porterà una coppia gay ad avere un bambino, che si potrà (forse) identificare il confine tra ciò che l’amore sospinge e la coscienza impone.
È, con le dovute proporzioni, ciò che dovrebbe accadere già alle coppie sterili che battono la via “semplice” della fecondazione assistita: è necessario scolpirsi nella mente, in via preventiva, un confine entro il quale disciplinare le possibili ansie in caso di plurimi tentativi andati a vuoto, o, più egoisticamente, si dovrà provare sino allo sfinimento?
(E qui, forse, si crea già un primo dislivello sociale, innanzitutto di ordine economico)
Il primo, grande, scoglio, sulla strada dell’«Accesso alla Felicità», è proprio l’atroce consapevolezza di non poter bastare a se stessi (in maniera più evidente e clamorosa nel caso di due padri), esattamente quell’elemento che rende il concetto di famiglia potentissimo. L’idea che per avere un figlio si debba ricorrere a una «forza» esterna, addirittura a una terza persona in carne e ossa, è effettivamente qualcosa di rivoluzionario. Qualcuno dirà inaccettabile, ma prima di definirla tale è utile capire meglio di che cosa stiamo parlando.
Non è pensabile, e sarebbe troppo comodo farlo, di poter eliminare quel sentimento umano, molto umano, che è l’egoismo, che in questo caso potremmo davvero elevare all’ennesima potenza: non è forse egoisticamente malato un amore che pur di avere la sua definizione più piena (avere figli) immagina di «tradire» la propria radice, affidandone la risoluzione scientifica a una persona esterna al matrimonio o alla convivenza?
(Si badi bene, la radice di questa domanda potrebbe tranquillamente estendersi alle donne single che concepiscono attraverso un donatore sconosciuto)
Nel suo blog, la mamma di Lisa Marie, Giuseppina La Delfa scrive: «Nelle nostre famiglie, si cresce nella verità della propria storia e si impara che è l’amore che crea una famiglia e che l’amore è più forte dei legami di sangue, dei cromosomi e anche delle leggi. Si impara anche che una mamma può assumere un ruolo tradizionalmente paterno e un papà quello tradizionalmente materno e che queste fluttuazioni non cambiano nulla per i figli ma sono importanti per tutti perchè offrono un modello in cui i ruoli di genere saltano in aria per dare libertà a tutti quanti».
In questo passaggio, e per bocca di una lesbica madre di due bambini, è espressa con grande chiarezza la supremazia del nucleo familiare, proprio nel senso antico dei ruoli, – ancora e sempre un padre e una madre – anche nella visione più moderna, rivoluzionaria e rovesciata che una situazione del genere ci racconta. E una domanda allora si impone: se si “avverte” la necessità che un’influenza materna e una paterna per un bambino comunque ci siano, ciò non rappresenta una deminutio inaccettabile per due lesbiche madri, che si vedrebbero così costrette a stravolgere la loro identità più piena in nome di un bene supremo ma negato dalla natura come un figlio condiviso?