Mario Monti ridimensiona con un colpo di penna i poteri dei governi delle regioni italiani. È oggettivamente difficile dargli torto, o sventolare con convinzione la bandiera del “regionalismo storico”, cioè di quello che abbiamo visto applicare. Quel regionalismo che arriva giù giù fino ai Fiorito, alle Minetti, ai Daccò, e su su fino ai Formigoni e alle Polverini.
Un regionalismo di serie b popolato da molti comprimari, lungo lo stivale e nelle isole, che brillerebbero di più, se i protagonisti delle due più importanti regioni italiani non fossero esempi così “luminosi” di quel che non doveva succedere. Insomma, Mario Monti con un provvedimento lancia un segnale. Pone un tema. Mette il dito nelle piaghe di un paese che si trova sempre meglio voltandosi dall’altra parte. Di fatto prova a spazzare via, in un colpo, l’impianto normativo che ha permesso ruberie e irresponsabilità su diverse scale regionali. E cioè: avoca al governo centrale – al momento guidato da lui, ma del doman non v’è invece alcuna certezza – molti poteri che l’impianto di “centralismo regionale” che la riforma del Titolo V aveva affidato ai governatori. Svetta, per capacità di spesa, il budget sanitario delle regioni: quella sanità regionale che è il terminale degli appetiti, degli scambi, delle passioni, delle retoriche, delle corruttele di tanti sistemi sanitari regionali. Così, porti aeroporti ed energia passano alla competenza esclusiva di Roma, mentre la sanità resta materia di competenza concorrente, ma in un quadro che sposta l’asse dai capoluoghi regionali alla capitale e ai suoi ministeri.
Il segnale dunque, proprio mentre una nuova ondata di scandali arriva in Lombardia, è forte è chiaro, e sembra difficile criticare il governo perché segna un deciso cambio di rotta. O meglio: è assai ragionevole discutere questo neo-centralismo, ma non si può farlo fingendo di ignorare cosa è successo in questi anni di “devolution” e simil-federalismo. Fuori dall’infinita emergenza morale del paese, tuttavia, è doveroso ricordare come si arrivò a questo regionalismo che si è presto popolato di mostri, e perché. L’onda che ha portato l’Italia ad avere i governatori e super-regioni dotate di grandi poteri, per la verità, cominciò a levarsi quanto a fare da capitale delle ruberie era, nel senso comune e di tutti, quella Roma che è da sempre capitale dello stato. Fu proprio per rispondere alla sensazione di palude di affari e relazioni del tutto disconnesse dal paese e dai suoi veri interessi che si iniziò a pensare, a diffondere il verbo, di un federalismo su base regionale. La Lega Nord era insieme grancassa e ispiratrice di queste convinzioni, il centrosinistra scoprì una tradizione federalista ampiamente dimenticata, il centrodestra ora liberale ora ultracentralista e consociativo si adeguò.
Il risultato, i risultati, li conosciamo. Uno stato centrale indebolito e legittimato. Una schiera di scandali e scandaletti, monopolii o grosse ruberie fioriti sul territorio regionale, con indagini a tappeto, e con l’epicentro che sta nel cuore delle regioni più importanti, potenti e ricche. Una classe dirigente che, se certo non può essere riassunta nelle Minetti e nei Fiorito, mostra con loro la sua faccia più inquietante: quella dell’assoluta autoreferenzialità di un potere politico tutto attento ai propri interessi (o schiavo delle proprie debolezze) e per nulla timoroso di un giudizio popolare che potrebbe presto volte all’invocazione della forca. Il modello italiano del regionalismo mostra dunque la corda, e una nuova ondata di scandali sembra pronta a far vedere che quella promessa di trasparenza e vicinanza ai territori amministrati si è tragicamente convertita nel proprio opposto.
Eppure, anche se non è facile dirlo oggi, la storia del nostro paese continua a indicare la via di un’impellenza federalista vera. Questo sistema squilibrato, questa nazione che aggrega macroregioni omogenee al proprio interno e così diverse tra di loro continua ad avere bisogno di una cura precisa, che muove nella direzione di più poteri e più controlli lontano da Roma e vicino ai territori.
Servirebbe, insomma, un progetto politico e un disegno che non smantellino il percorso che porta a un governo forte dei territori esercitato da rappresentanti che quei territori esprimono, ma piuttosto che li rafforzi. E che, soprattutto, renda finalmente chiaro che chi sbaglia paga, e chi fa disastri contabili o politici non ha scorciatoie. Fa un po’ sorridere, infatti, che proprio mentre il ministro Grilli “regala” un altro miliardo alla Sicilia del default, il suo governo stringe le viti e toglie i poteri alle regioni a statuto ordinario.
Capiamo bene che un nuovo rilancio del federalismo e del regionalismo, in Italia, non può avvenire al di fuori di un grande e ambizioso progetto politico, mentre Mario Monti ha dovuto affrontare una (l’ennesima…) emergenza. Eppure è bene mettere subito dei punti fermi: l’Italia ha bisogno di più federalismo, e di maggiore responsabilizzazione di una classe dirigente locale. Fino ad oggi nelle Regioni giravano molti poteri e soldi, e nessuna vera responsabilità di pari dimensione. Sarebbe ora di cambiare marcia e di responsabilizzare tutti, senza pensare che basti riportare ogni controllo a Roma. Che, del resto, è sì la capitale di un paese temporaneamente guidato da un premier tecnico e sobrio, ma anche il capoluogo della Regione che, travolta dagli scandali, ha dato la spallata finale al regionalismo italiano.