SEOUL – A fine settembre The Economist si chiedeva se fosse possibile che il controllo di qualche scoglio o poco più, le isolette di Diaoyu/Senkaku, potesse condurre a una guerra tra la seconda e la terza economia mondiale. E la conclusione era che sì, un conflitto militare tra Cina e Giappone, con tutte le conseguenze che esso potrebbe produrre, non fosse da escludersi.
Nel frattempo la Pechino ha scelto di abbassare drasticamente il livello della sua delegazione alla riunione annuale di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale a Tokyo, cui non hanno partecipato né il ministro delle Finanze Xie Xuren, né il governatore della Banca centrale Zhou Xiaochuan (che pure doveva tenere la prestigiosa Per Jacobsson Lecture). Mentre le esportazioni nipponiche in Cina sono crollate del 14% in settembre, rispetto al 2011.
E che dire di altre due isolette tra Corea e Giappone, Dokdo/Takeshima? Ignote ai più, probabilmente anche nelle cancellerie del resto del mondo, sono improvvisamente diventate materia di preoccupati dispacci diplomatici dal 10 agosto, quando una visita del presidente coreano – pochi giorni prima della ricorrenza dell’indipendenza del paese del Mattino Calmo dal giogo giapponese – ha riaperto un conflitto le cui origini rimontano alla guerra sino-russa del 1904/05 e non sono state assolutamente sanate dal Trattato di pace di San Francisco che nel 1951 pose fine alla seconda guerra mondiale. Richiamo in patria dell’ambasciatore giapponese, missive diplomatiche cui Seoul si rifiuta di rispondere, accordi di cooperazione finanziaria che non vengono rinnovati, persino un presidente della Banca mondiale americano (ma di origine coreana) che si rivolge a Naruhito, figlio dell’Imperatore Akhito, come “sua altezza reale” e non come “sua altezza imperiale” come invece fa nella stessa occasione Christine Lagarde.
Per fortuna la disputa territoriale tra Cina e Corea per la titolarità della roccia di Leodo/Suyan non sembra destinata a suscitare identica tensione, malgrado il crescente nervosismo con cui i coreani reagiscono alla pubblicazioni di testi che mostrano che la Grande Muraglia sconfinava in Manciuria e che l’antico regno Goguryeo era poco più che un vassallo della Cina. Certo la recente morte di un pescatore cinese, colpito dalle guardie costiere per avere reagito al tentativo di mettere sotto sequestro la sua imbarcazione mentre pescava nelle acque territoriali coreane, ha aggravato ulteriormente la situazione. Anche perché le vicende recenti suggeriscono che in Asia, come dice il refrain, surprisas da la vida.
È vero che queste controversie territoriali sono annose, ma sembrava che anche senza una soluzione che fissasse le frontiere in maniera duratura esse sarebbero rimaste materia per specialisti, un dettaglio della storia rispetto all’esplodere dei rapporti economici tra le tre grandi economie sub-regionali. Pur sprovviste di un accordo di libero scambio, Cina, Corea e Giappone hanno infatti visto l’intercambio commerciale passare da 167 miliardi di dollari nel 2000 a 700 nel 2011. La Cina è la seconda destinazione per gli investimenti esteri giapponesi, la quarta per i coreani, mentre Giappone e Corea sono il terzo e sesto mercato preferito per le multinazionali cinesi. La dipendenza è reciproca: le fabbriche cinesi di automobili e elettronica non potrebbero funzionare senza le parti e componenti importate da Giappone e Corea, ma le grandi imprese di questi paesi – dalla Samsung alla Toyota, dalla Komatsu alla Hyundai – non potrebbero sopravvivere senza i lavoratori e i consumatori cinesi.
Gli sviluppi degli ultimi mesi non sono sufficienti a smentire la teoria secondo cui le interazioni economiche, in particolare il doux commerce di Montesquieu, promuovono la pace e armoniose relazioni internazionali. Nella prima parte del XX secolo le guerre in Asia orientale hanno causato perdite umani e materiali che, pur senza arrivare agli abomini del Vecchio continente, sono stati immense. Che dopo la guerra di Corea non ci siano stati conflitti tra i tre grandi paesi della sub-regione dimostra che il pragmatismo ha prevalso, anche senza un reale sforzo di comprensione del passato e senza l’emergere di Adenauer, De Gasperi, Schumann o Spinelli asiatici.
Ma gli argomenti della scuola liberale non sono sufficienti. Anche se le relazioni tra i popoli sono sempre più intense – i 17 cinesi che studiavano in Corea al momento dell’instaurazione delle relazioni diplomatiche, nel 1992, sono diventati 50 mila, mentre i coreani che vivono in Cina sono passati da 4000 a 350 mila – gli stessi giovani che decretano il successo della moda giapponese (per esempio l’onnipresente Uniqlo) o della musica coreana (l’immancabile Psy …) sono in prima linea nel rivendicare le ambizioni territoriali cinesi. E la rivendicazione coreana di una primogenitura sulla festa cinese delle barche del dragone riesce a innervosire anche chi guida una Kia e ha un telefonino LG. Che dire poi della speranza che la democrazia sia la soluzione? Se presidenti e primi ministri si ricordano d’isolotti dove vivono soltanto delle caprette è anche perché l’opinione pubblica ha sempre meno fiducia nella classe politica, le elezioni si avvicinano, e anche dove la selezione della leadership politica non è in mano degli elettori il processo sta lentamente diventando più trasparente.
In realtà gli sviluppi in corso riflettono l’incapacità dimostrata fino ad ora nell’affrontare in maniera soddisfacente ferite profonde. Quella dell’imperialismo giapponese negli anni 30 e 40, che viene regolarmente riaperta dalle visite di dignitari al mausoleo di Yasukuni (che onora anche alcuni militari che si macchiarono di orribili crimini di guerra) e dal rifiuto di scusarsi per deportazione forzata delle confort women. O quella della divisione della penisola coreana e il rifiuto cinese di condannare Pyongyang hanno quando, come nel caso dell’affondamento del Cheonan nel 2010, le prove sono quasi senza appello. A questi problemi se ne aggiungono nuovi, in primis l’emergere della Cina, non solo come potenza potenzialmente egemone in Asia orientale, ma anche come rivale globale degli Stati Uniti – che a tutt’oggi garantiscono la sicurezza di Corea e Giappone.
Di fronte a queste sfide, non è sufficiente continuare e approfondire le relazioni economiche e gli scambi tra i popoli – è ormai chiaro l’Asia orientale deve dotarsi di strumenti e istituzioni di cooperazione politica ed economica. In passato governi e imprese erano d’accordo nel considerare questo armamentario come un lusso, se non addirittura una perdita di tempo che solo gli europei potevano permettersi. Dopo 13 anni di progressivo avvicinamento, ormai i tre paesi hanno messo in piedi una molteplicità di incontri formali: i capi di stato e di governo lo fanno due volte all’anno, i ministri degli Esteri, delle Finanze, del Commercio, dei Trasporti e dell’Agricoltura e i governatori delle banche centrali con frequenza annuale. Dal 2011 esiste un segretariato permanente a Seoul, che, oltre ad organizzare questi incontri ad alto livello, accompagna i negoziati per l’accordo di libero scambio che sono stati lanciati al vertice di Pechino di maggio 2012.
Campus Asia è un altro esempio incoraggiante. È stato creato quest’anno sul modello dei programmi europei di mobilità di studenti e professori, anche se è ovviamente troppo presto per dire se avrà gli stessi successi di Erasmus – anche nel permettere gli amori tra giovani e la nascita di una vera generazione di piccoli asiatici. Magari un giorno sarà pure possibile che i ministri dell’Istruzione si confrontino sul tema dell’insegnamento della storia e dei manuali scolastici, vexata quæstio se ce n’è una.
L’immagine di un’Europa che gira l’Asia col cappello in mano, cercando fondi per salvare la moneta unica, è forse un po’ eccessiva, anche se il tono del comunicato emesso a Bangkok in occasione del decimo vertice Asem (Asia ed Europa) dei ministri delle Finanze suggerisce che non è troppo distante dalla realtà. Certo negli ultimi tempi la sensazione è che alle tavole in cui si prendono le decisioni la voce dell’Europa sia scarsamente audibile. Sarebbe ingenuo leggere nella decisione dei saggi di Oslo la pozione magica che risolve la situazione – ma è auspicabile che renda gli europei fieri delle nostre conquiste e più ambiziosi nel confrontarsi con l’Asia. Magari proprio a partire dall’undicesimo vertice che l’autunno prossimo sarà presieduto proprio dall’Italia.