Post SilvioPolverini si dimette, Formigoni no: cos’è il potere in Italia

Polverini si dimette, Formigoni no: cos’è il potere in Italia

Per colpa di un caciottaro come Fiorito, nella regione della capitale politica, alla fine ci si dimette. Nella regione della capitale economica e “morale”, invece, si avevano fino a ieri assessori accusati di fare mercato con la ‘Ndrangheta, ma si continua a governare. Nel segno di una – credibilissima – “forte discontinuità col passato”. Proprio quel passato lastricato di scandali, sospetti, stecche e processi per direttissima finiti con pesanti condanne. Al primo refolo di vento, dicevamo, il potere regionale romano viene giù; dopo una bufera costante Formigoni ha la stessa faccia tra il fintotonto e l’arrogante di sempre. Prima o poi se ne andrà anche, ma certo non si potrà dire che sarà stata la “questione morale” a farlo saltare.

Se quella parola – morale – avesse ancora un senso, è certo che Formigoni avrebbe fatto il suo dignitoso passo indietro, per non sentirsi più rinfacciare giunta e partito falcidiati dalle inchieste, o Nicole Minetti candidata nel suo listino: quello stesso listino che ieri ha annunciato di volere abolire dal sistema elettorale della Regione che governa da 17 anni. La parola chiave, nello specchio in cui si guardano Roma e Milano, Renata Polverini e Roberto Formigoni, non è dunque morale – o “dovere” – ma potere. È solo il tasso di solidità del potere di queste due persone, e di ciò che aggregano e rappresentano, a determinare l’esito diverso – per il momento antitetico – che vede Polverini dimessa e il Lazio in attesa di una data per votare, e Formigoni sulla poltrona che, dopo tutto, governa verso transizioni improbabili, maquillage mediatici, gli imbarazzi di un Maroni confuso e un obiettivo sostanzialmente dichiarato: tirare a campare, e continuare a comandare, fino al 2015.

Cosa c’è di diverso, tra Polverini e Formigoni, tra questa Milano e questa Roma? Partiamo dal percorso di Polverini e da tutti i limiti che questo epilogo ha mostrato. Partiamo da ciò che l’ha resa candidabile che poi, nella democrazia post-tutto di questi anni, si riduce a un tasso decente di popolarità e al vettore che serve per conquistarla. I voti di Renata Polverini non erano voti dell’Ugl ma, in parte importante, voti televisivi nati sull’onda lunga generata da Ballarò. E poi, all’inizio di un crepuscolo che lo avrebbe rapidamente portato al declino, l’ultimo residuo di forza di Silvio Berlusconi ancora capace (in quel 2010) di tenere insieme quall’accozzaglia mai diventata partito del Pdl. La stessa Ugl, e un gruppo di fedelissimi che Polverini ha portato con sé piazzandoli in ruolo chiave nella sua giunta o nella struttura (a cominciare dall’assessore Stefano Cetica e il segretario generale della Regione, Salvatore Ronghi), si è rivelata alla prova dei fatti inadatta a quel salto di scala. Alla gestione del potere dentro a una misura così visibilmente più grande.

Non l’ha aiutata, in questo, un partito in evidente decomposizione, e arrivato ai vertici della Regione Lazio gestendo eredità di vecchie cordate di voti non ricompattate, quantomeno, attorno  a interessi stabili e condivisi. Né potevano arrivare in suo soccorso, a sostegno di un’esperienza politica nuova e friabile, le ultime esperienze regionali di una destra che, prima che Marrazzo venisse travolto dallo scandalo-trans, aveva chinato il capo dopo una serie di errori e indagini. Così era finita, al normale decadere di una legislatura, la giunta di Francesco Storace. In un ventre molle fatto di strutture forti nel catalizzare voti a mo’ di comitato elettorale, ma assai deboli nel dare continuità e robustezza all’azione politica e tecnica, gli affarismi e le piccole e grandi ruberie son finite con il sembrare – o con l’essere? – l’unico dato saliente. È stata insomma l’assenza di potere, l’incapacità di gestirlo e di usarlo, il declino del cavaliere e una serie di accordi (con la chiesa, con i potenti, con qualche palazzinari, con qualche imprenditore della sanità) tutti contingenti e mai di lunga strategia, a portare alla fine ingloriosa e repentina di un governo regionale.

Nella Lombardia di Formigoni, invece, la musica è tutta diversa. Al potere si dà del tu da prima che la seconda Repubblica esistesse. Il nucleo duro è quello che è nato e cresciuto lungo l’asse tra vecchi pezzi di destra Dc e il robusto apparato di braccia, gambe, teste e fiducia. Diciotto anni di governo hanno costruito, nel tempo, una macchina solida e trasversale, affari con le coop rosse (il Pd, in effetti, su Formigoni si muove sempre con una certa fatica…), una presa di potere capillare della macchina di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle opere. Ancora: centinaia di realtà che vivono del rapporto stretto e organico con la regione, uno stuolo di dirigenti e funzionari comunque fedeli alla linea, la sensazione di un potere pervadente (troppo) e tuttavia (proprio per questo) difficile da archiviare.

O meglio, forte nel suo potenziale di resistenza perchè oliato, radicato e con poche crepe. Un potere che controlla piuttosto bene anche i gangli della comunicazione e che – quando tutti sapevano nomi e dinamiche, ma nessuno aveva ancora le prove – veniva spesso definito “non poi così male” anche da chi non era né pidiellino né ciellino. Del resto, la struttura ciellina e il suo mondo entrarono in regione nel 1995, dentro un assetto sostanzialmente “bonificato” dal crollo della prima repubblica e della sua classe politica e tecnica. Entrarono in una struttura “vuota” e che risultava, allora, tutta da riempire. E così la occuparono e vi si strutturarono, a loro volta modellandola lungo linee guida chiare e un progetto che – è la storia di questi giorni – non ritenne mai che la “questione morale” dovesse costituire una pre-condizione. E infatti, a chi pone una questione morale sull’occupazione formigonian-ciellina del potere e del danaro in regione Lombardia, si risponde abitualmente che la Lombardia è molto ben amministrata. Ne riparleremo, a lungo e non senza dare conto di buoni risultati. Ma ciò non toglie che la vera eccellenza lombarda sia un’altra: la capacità di quel sistema di movimento-gruppo-partito di pervadere capillarmente i livelli di controllo del potere e della sua gestione. In questo, dai lombardi come Formigoni, Daccò, Simone e Zambetti, la Roma di Fiorito ha ancora tutto da imparare.

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