NEW YORK- Sono arrivati in Florida in parità nei sondaggi e con un dibattito vinto a testa. Dopo aver parlato di economica, occupazione e sanità, stasera Mitt Romney e Barack Obama nell’ultimo dei tre faccia a faccia presidenziali dovranno spiegare agli americani il ruolo che gli Stati Uniti avranno a livello internazionale in caso di vittoria il 6 novembre.
Quello di Boca Raton, sarà infatti un incontro focalizzato interamente sulla politica estera. Novanta minuti, moderati dal giornalista della Cbs Bob Schieffer, in cui finalmente ai due candidati alla Casa Bianca verrà chiesto di andare oltre i proclami, e di delineare l’agenda che intendono portare avanti nei prossimi 4 anni fuori dai confini nazionali.
Sarà uno scontro tra due modi molto diversi di intendere il potere: per il candidato repubblicano gli Usa devono tornare a essere la più grande nazione leader, che non deve mai scusarsi della propria forza; mentre Obama sostiene la logica della “condivisione del potere” e della costruzione di coalizioni, più che di imposizioni unilaterali. Il lavoro che Romney dovrà fare sarà molto delicato: se da una parte continuerà ad attaccare l’amministrazione del presidente definendola debole e incerta, dall’altra dovrà stare attento a non sembrare troppo interventista quando si parlerà, per esempio, di Iran e Siria, perché sa bene che gli americani, piegati da una lunga crisi economica, un’altra guerra è proprio l’ultima cosa che vorrebbero.
Se si ripeteranno gli ascolti degli altri due dibattiti, il confronto televisivo tra Obama e Romney sarà guardato da oltre sessanta milioni di persone. Anche con una perfomance perfetta, sia per l’uno che per l’altro sarà difficile conquistare comunque gli indecisi. A spostare gli ultimi voti, più che la politica estera, sarà ancora e sempre, finché la disoccupazione resterà alta, l’economia. La tensione è comunque alta, siamo di fronte infatti a una delle elezioni più incerte della storia americana. I due candidati hanno dedicato i giorni scorsi a prepararsi attentamente per evitare scivoloni: Obama ha cercato la concentrazione a Camp David, il ritiro presidenziale tra le montagne del Maryland, mentre Romney ha scelto il sole della Florida.
Il moderatore ha già detto di aver individuato 5 aree di discussione. Si ritornerà alla formula del primo faccia a faccia. A fare le domande non sarà più il pubblico, come nel secondo, ma il giornalista seduto in sala dietro una scrivania. Il dibattito sulla politica estera doveva essere una passeggiata per il presidente Obama che ha all’attivo importanti risultati in questo campo (la fine della guerra in Iraq, l’uccisione di Bin Laden, l’indebolimento di Al Qaeda e il ritiro delle truppe dall’Afghanistan entro il 2014) e invece i recenti avvenimenti l’hanno fatto diventare un appuntamento molto insidioso.
Primo fra tutti l’affare Libia. Se ne parlerà ancora, nonostante Obama abbia ammesso di aver fatto degli errori, e la Cia abbia detto che non ci siano ancora prove precise che sia stata una rete terroristica a uccidere a Bengasi l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani. Romney farà ancora pressing, il presidente dovrà spiegare quali informazioni la Casa Bianca abbia ricevuto dalle agenzie di intelligence i giorni prima dell’attacco e se grazie a queste sarebbe stato possibile prevenire o meno quello che è successo. Ci sarà poi la patata bollente dell’Iran. Proprio in questi giorni, il New York Times ha pubblicato un articolo che dà conto di un possibile accordo segreto, smentito dalla Casa Bianca, tra l’amministrazione Obama e Teheran per avviare discussioni bilaterali sul programma nucleare subito dopo le elezioni.
Entrambi i candidati vogliono evitare la guerra. Ma come? Se Israele ha già tracciato la linea rossa, superata la quale c’è solo l’intervento armato contro il nemico iraniano, Obama dovrà spiegare quali sono i suoi paletti e quanto è disposto a concedere all’Iran se si dovesse aprire il tavolo delle negoziazioni. Romney invece che ha condannato già ogni tipo di arricchimento dell’uranio portato avanti da Teheran, dovrà dire se veramente prevede uno scenario che non comprenda l’uso delle armi.
Il presidente ha già pronte le risposte all’attacco scontato del candidato repubblicano sull’allentamento dei rapporti con gli alleati israeliani e sulla politica incerta portata avanti in Siria, dove da ormai più di un anno si sta compiendo un massacro di civili. Anche qui nessuno dei due vuole portare gli Stati Uniti dentro una guerra. Obama cercherà di difendere il ruolo della diplomazia in quella che è considerata ormai la polveriera del Medioriente, mentre Romney sarà chiamato a spiegare: uno, come intende porre fine allo scontro civile senza intervenire militarmente e due, chi sono i ribelli con cui ha detto di aver già preso contatto.
Primavera araba, diffusione della democrazia, e islamici al potere in Egitto, ma anche i rapporti commerciali con la Cina (Romney accusa Obama di aver lasciato il partner asiatico giocare sporco in campo commerciale, manipolando la propria valuta e indebolendo in questo modo il mercato statunitense), Europa (il presidente è stato accusato di copiare le politiche del vecchio Continente. «Se continuiamo così faremo la fine della Grecia», aveva detto l’ex governatore del Massachussets). E poi, perché no, potrebbe esserci spazio anche per parlare dei rapporti con Cuba, visto l’importanza del voto latino in uno stato chiave come la Florida, con i sondaggi che vedono i repubblicani in testa soltanto di un punto.
A meno di pericolose gaffe, Obama dovrebbe spuntarla stasera. Romney, forte in economia, non lo è altrettanto in politica estera. Nella campagna elettorale del 2008 contro McCain, anche Barack era a corto di esperienza internazionale, ma per supplire le sue carenze chiamò come candidato vicepresidente Joe Biden, un politico con una lunga esperienza di esteri. Romney invece ha scelto di focalizzare tutto il suo programma sull’economia e come secondo ha puntato sul giovane conservatore Paul Ryan, presidente della Commissione bilancio della Camera. Non gioca a favore del ticket repubblicano in politica estera neanche il fatto che parte dello staff abbia avuto un ruolo nell’amministrazione Bush, l’uomo delle spese finanziate con «la carta di credito», come spesso hanno accusato i democratici, da cui ora tutti cercano di allontanarsi.
Insomma più che un punto di arrivo che deciderà la sorte di uno o dell’altro, il dibattito di stasera darà il via agli ultimi quindici giorni infuocati di campagna elettorale. Gli ultimi sondaggi, della Nbc e Wall Street Journal, danno Romney e Obama pari al 47%, con il candidato repubblicano ancora in rimonta negli stati chiave. Ormai la partita si giocherà proprio negli “swing states”: Florida, Ohio, Virginia, Colorado e Iowa le basi incerte più importanti, decisive per la corsa alla Casa Bianca.