I terreni coltivabili sono sempre di meno e la richiesta di cibo cresce sempre di più. Se gli abitanti del pianeta crescono, la quantità di terra e acqua pro capite diminuisce. Con il land grabbing, Paesi come la Cina, l’Arabia Saudita e la Corea del Sud stanno affittando o comprando nuovi terreni in Africa per far fronte all’approvvigionamento alimentare della popolazione. Ma se il suolo non basta, tanto vale guardare in alto, per costruire grattacieli agricoli in grado di combattere la carenza di risorse sul pianeta. Queste strutture si chiamano vertical farm, fattorie verticali, edifici urbani che riproducono il ciclo agricolo naturale. Tutto piantato, coltivato e raccolto nello stesso posto. Tra quattro mura. Un’idea nata da uno scienziato della Columbia University di New York e che ora sta prendendo piede soprattutto negli Stati Uniti, allarmati dalla siccità della scorsa estate. Tanto che anche il Wall Street Journal ha dedicato ampio spazio al tema. In Italia il primo progetto è nato all’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie. Si chiama Skyland e sarà presentato in occasione di Expo 2015. «Queste strutture rappresentano l’agricoltura del futuro», dice Gabriella Funaro, architetto a capo del progetto, «per di più risparmiando acqua e inquinando di meno».
Funaro, partiamo dalla definizione: cos’è una vertical farm?
La vertical farm è la fattoria tradizionale che si trasforma in un grattacielo per produrre alimenti in città. È una struttura inserita nelle metropoli per soddisfare il fabbisogno alimentare di un quartiere di 25-30 mila abitanti. Un edificio che integra in un’unica struttura tutta la filiera alimentare, dalla produzione al raccolto di frutta e verdura. E a volte anche il consumo.
Si può consumare nello stesso luogo in cui si coltiva?
Certo, è possibile immaginare dei servizi annessi alla fattoria verticale vera e propria, come il supermercato in cui vengono venduti i prodotti appena raccolti. Si può anche pensare a ristoranti all’interno della fattoria verticale, o ancora a un centro di dietologia o di educazione alimentare. Insomma, una vertical farm può diventare il fulcro per tutto quello che riguarda l’alimentazione. A chilometro zero.
Quali tecniche vengono usate per coltivare all’interno delle vertical farm?
Si tratta di tecniche di coltura idroponica fuori suolo. Le piante sono coltivate in materiali come la pomice o l’argilla espansa su più piani, in verticale. E vengono irrigate con poca acqua ricca di soluzioni nutritive.
Quali sono i vantaggi di queste coltivazioni?
Con la coltivazione su più piani in verticale, un ettaro di terra convenzionale corrisponde a 5-6 ettari di una vertical farm. Quindi si recupera spazio. E irrigando le radici con soluzioni ricche di sostanze nutritive, si usa solo il 5% dell’acqua necessaria per una coltivazione convenzionale. In più, essendo sistemi chiusi, non vengono usati pesticidi o erbicidi. La qualità delle verdure è garantita e in più non si inquina il suolo.
E per la luce come si fa?
Questo è un lato critico dei progetti di vertical farm. C’è bisogno della luce verticale per illuminare i diversi strati delle coltivazioni. Anche se si adottano pareti di vetro cercando di sfruttare la luce naturale, bisogna tener conto che ogni pianta ha bisogno di una quantità di luce specifica diversa dall’altra. È necessario che ci sia uniformità nell’illuminazione delle piante. Oggi si usano i led, che consumano meno delle lampadine convenzionali. Da qua a qualche anno, con queste tecnologie riusciremo a ridurre il consumo di elettricità del 60% rispetto all’energia delle lampade usate nelle serre.
I critici delle vertical farm sostengono che l’eccessivo consumo energetico eliminerebbe ogni altro vantaggio, soprattutto in termini di costi.
Pensiamo al costo della maggior parte dei prodotti ortofrutticoli, che si moltiplica di 4-5 volte dal produttore fino al consumatore. In altri casi anche di 8-10 volte. Le carote che vengono vendute dal produttore a 10 centesimi al chilo, al supermercato ci costano 1,25 euro. Con le vertical farm tutti i costi di trasporto vengono abbattuti. Sono coltivazioni a chilometro zero e tagliano i costi di intermediazione. Gli italiani spendono 3 miliardi di euro all’anno per acquistare prodotti locali. In questo modo sarà più semplice averli. Abbattendo anche l’inquinamento per CO2 e il costo dei trasporti su lunga distanza. In più si risparmia anche sull’acqua, che viene riciclata nella struttura, il che è una questione critica, visto che l’acqua pro capite globale si sta riducendo. E anche gli scarti delle coltivazioni possono essere sfruttati per produrre biogas da usare come fonte energetica. Senza dimenticare il risparmio in pesticidi.
Quanto costa realizzare una struttura di questo tipo, così tecnologicamente avanzata?
I costi per la realizzazione sono effettivamente elevati. D’altronde si tratta di costruire grattacieli, dotati di sistemi complessi di coltivazione. Ma questi costi, quantificabili in alcuni milioni di euro, potrebbero essere ammortizzati in pochissimo tempo visti i risparmi, soprattutto se alle coltivazioni vengono affiancati anche altri servizi. Ma va considerato soprattutto che queste fabbriche agricole rappresentano la soluzione alla riduzione globale delle terre coltivabili.
Perché le vertical farm rappresentano una soluzione per il crescente fabbisogno alimentare mondiale?
Le terre coltivabili sono sempre di meno e costano sempre di più. Coltivare su più livelli in una vertical farm permette di ridurre questi problemi di spazio. A questo va aggiunto il fenomeno della urbanizzazione, con l’allontanamento degli uomini dalle campagne. Entro il 2050 l’80 per cento dell’umanità vivrà nei centri urbani. E poi la popolazione continua a crescere e c’è una domanda sempre maggiore di cibo. Basti pensare al fenomeno del land grabbing: la Cina sta acquistando terreni in giro per il mondo per far fronte alla richiesta crescente di cibo. Ecco l’importanza di trovare un modo diverso per fare agricoltura. In più, nelle fattorie verticali si può coltivare qualsiasi tipo di prodotto da qualsiasi parte. Anche in Siberia potranno coltivare la lattuga.
Da dove nasce l’idea?
L’inventore delle vertical farm è il biologo Dickson Despommier della Columbia University di New York. Partendo dalla sua idea, i progettisti si sono allineati alla idea iniziale di vertical farm, cioè colture verticali che possono offrire alimenti freschi a portata di mano. A questo è possibile aggiungere altri servizi utili, come i moderni centri commerciali in cui ci sono servizi di tutti i tipi, dai negozi, ai ristoranti ai cinema. Allo stesso modo una vertical farm può essere un centro per la salute e il benessere alimentare, aggiungendo servizi come il ristorante o la palestra.
È quello che avete pensato per il progetto Skyland, il primo grande progetto italiano di vertical farm?
Sì, Skyland è una struttura complessa di trenta piani, il cui prototipo sarà presentato in occasione di Expo. Ma siamo ancora in una fase progettuale. Abbiamo pensato lo Skyland come struttura energeticamente sufficiente, con una parete fotovoltaica, il riciclo totale degli scarti della lavorazione agricola, lo sfruttamento del biogas e l’utilizzo di una pompa geotermica. Strutture come questa potrebbero modificare lo skyline delle nostre città: si vedranno palazzi illuminati con i led e adibiti a coltivazioni di insalate o pomodori. Che, per di più, potranno anche essere punti di aggregazione sociale.
Le vertical farm sono già realtà in alcuni Paesi del mondo?
In Svezia è stata posta la prima pietra di un nuovo edificio. Ci sono alcune strutture anche negli Stati Uniti. A Hong Kong invece si stanno sfruttando i sotterranei delle banche per coltivare il riso al buio, approfittando degli spazi poco utilizzati. Di progetti ce ne sono molti in giro per il mondo, ma poche realizzazioni, visti i costi iniziali che richiedono.
E la qualità dei prodotti coltivati? Come si può superare lo scetticismo dei consumatori?
La qualità dei prodotti è elevatissima, soprattutto considerando che vengono usati pochi pesticidi. E in più non c’è l’esposizione delle colture alle emissioni inquinanti. C’è sicuramente una maggiore salubrità del prodotto rispetto alle coltivazioni tradizionali. E poi bisogna considerare che la maggior parte dei pomodori che mangiamo è già coltivato in serra. Bisogna investire molto in comunicazione per far capire che l’innovazione può esistere anche nel settore alimentare. Perché le crescenti esigenze alimentari sul nostro pianeta sono davvero una fonte di preoccupazione per la sopravvivenza dei prossimi anni.