Come al solito a Giuliano Ferrara non manca il coraggio. E il quotidiano che oggi affronta in maniera più complessa la questione Fiat è il Foglio. Uno degli articoli è una conversazione col giuslavorista Pietro Ichino dalla quale abbiamo estratto i suoi virgolettati. Un vero e prorpio manifesto di una sinistra realmente riformista.
«Non c’è una rappresaglia. Questa sentenza non può che essere collocata in un conflitto lungo due anni. Marchionne sta cercando di praticare un modello all’americana di relazioni industriali, tutt’altro che illegittimo. Illegittima è la discriminazione, ma la lettura dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori ammette che in fabbrica siano riconosciuti soltanto i sindacati firmatari dei contratti collettivi applicati in azienda quando questi ultimi sono accettati dalla maggioranza dei lavoratori».
«Marchionne non vìola la legge quando cerca di praticare il modello di relazioni industriali “all’americana” che l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori consente. È la cultura dominante che lo respinge».
«Fiom ha ragione giuridica dalla sua parte, nel caso specifico delle discriminazioni individuali accertate dai giudici, ma è chiaro che le polemiche di queste ore non nascono da quest’ultimo episodio di Pomigliano. A essere attaccato è tutto quello che l’ad di Fiat ha portato nelle relazioni industriali italiane. Inclusa la scelta di non riconoscere i sindacalisti della Fiom che non stanno al piano industriale approvato dalla maggioranza dei lavoratori. E inclusa la legittima scelta del Lingotto di staccarsi dal sistema confindustriale. Dal dibattito pubblico emerge il tentativo di negare il possibile pluralismo dei modelli di relazioni industriali».
«Quello della Fiat di Pomigliano potrebbe essere usato come caso di scuola per lo studio delle cause e degli effetti del malfunzionamento di un sistema di relazioni industriali. Ciascuna delle parti ha qualche ragione di accusare l’altra di qualche malefatta. Ha ragione la Fiom, secondo quanto accertato dal giudice, quando accusa Marchionne di avere discriminato i suoi nelle assunzioni. Ma ha ragione anche Marchionne quando accusa la Fiom di aver fatto la guerra fin dall’inizio, cioè fin dalla primavera del 2010, contro il suo piano industriale, sulla base di un principio che solo un anno dopo, con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno, la stessa Cgil avrebbe riconosciuto come sbagliato: quello della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale. Logica e buon senso avrebbero imposto che la Fiom rinunciasse alla guerriglia giudiziaria contro il piano industriale Fiat, fimando gli accordi aziendali e ottenendo così il riconoscimento dei suoi rappresentanti negli stabilimenti».
«Secondo la legge italiana, l’ad di Fiat ha il diritto di non riconoscere le rappresentanze del sindacato che non ha firmato alcun contratto collettivo applicato in azienda. Ma non ha il diritto, come potrebbe fare in America, di discriminare i suoi iscritti. Ciononostante, a mio avviso, il provvedimento adottato dal giudice in questo caso è inappropriato».
«Di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno. Anche perché la costituzione coattiva di un numero elevato di rapporti di lavoro, visto che a questi primi 19 lavoratori potrebbero seguirne nel prossimo futuro altri 126, produce l’effetto di una eccedenza di personale, con la conseguente legittimazione dell’impresa ad aprire una procedura di licenziamento collettivo. D’altra parte, non è ragionevole ritenere che un’impresa mantenga in organico 145 persone in eccesso rispetto all’organico di cui ha bisogno, anto meno in tempo di crisi».
«Quando un sistema delle relazioni industriali va in tilt è rarissimo che un provvedimento giudiziale abbia l’effetto di sbloccarlo. Lo si può escludere del tutto, poi, quando il provvedimento è inappropriato, come questo di cui si discute oggi, che genera delle conseguenze assurde».
«Nelle cause che nasceranno dal licenziamento collettivo, i giudici non negheranno in linea teorica il diritto dell’impresa di ridurre il personale. Ma è prevedibile che troveranno il modo per impedire che il licenziamento collettivo abbia corso. Così, nell’immediato si evita un’ulteriore ingiustizia, ma sulla distanza il risultato è quello di indebolire un’intera impresa. E di contribuire a tenere lontani dal nostro paese gli investitori stranieri».
«Se fossi il ministro del Lavoro, convocherei le parti per un tentativo di voltar pagina rispetto alla situazione assurda che si è determinata. E farei tutto il possibile per indurre la Fiom a firmare gli accordi aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, cessando le ostilità e ottenendo il riconoscimento dei suoi rapprsentanti in azienda. E per indurre al Fiat a rinunciare al licenziamento collettivo, risolvendo il problmea con un contratto di solidarietà, in attesa della congiuntura positiva».