Intesa ed Eni si impegnano a riportare in Italia e mettere a disposizione del pubblico le prime bozze dell’inizio del Falstaff che andranno all’asta mercoledì a Londra. Per noi de Linkiesta che avevamo lanciato un appello a Giovanni Bazoli e Francesco Micheli, identificati come i principali mecenati della cultura milanese, perché si adoperassero a promuovere una sottoscrizione pubblica per evitare che, nell’imminenza del bicentario verdiano, questo prezioso documento finisse in qualche collezione privata, magari all’estero, è una buona notizia. Anche se avremmo preferito lo spirito civico di una mobilitazione collettiva, come quella che portò a Milano la Pietà Rondanini. Il nostro dovere ci sembra di averlo fatto. Ora non resta che aspettare l’esito dell’asta (il pezzo verrà battuto a un prezzo compreso fra 80 e 100 mila sterline) e il nostro compito si ferma qua.
Da dove viene questa storia. La vicenda nasce da un articolo dell’Unità che, per prima, nota l’asta in cui verrà battuta questa copia del Falstaff. Un post sul blog Mompracem, gestito da chi scrive, rilancia subito il problema esposto dal quotidiano fondato da Gramsci auspicando un improbabile intervento del ministro Ornaghi. Un commentatore anonimo invita immediatamente a non aspettarsi nulla («lo stato è il problema») e ad agire. Condividendo in pieno le sue argomentazioni gli rispondo che l’invito era rivolto ad Ornaghi perché da me considerato come uno dei peggiori ministri di questo governo, ma colgo subito l’invito sottoscrivendo in pieno le sue parole. Anche al di là di Ornaghi dobbiamo essere noi a organizzarci, dallo stato non possiamo aspettarci nulla e, per molti aspetti, è molto meglio così. Da qui l’appello a Bazoli e Micheli che viene subito recepito. Il finanziere milanese è il primo ad attivarsi a cercare di coinvolgere altri, Bazoli, che siede nel cda della Scala, accetta immediatamente e così anche Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione Corriere della Sera. Dai contatti nella mattinata di domenica emerge la volontà di Paolo Scaroni, anche lui membro del cda, di coinvolgere direttamente l’Eni e Bazoli assicura l’appoggio di Intesa Sanpaolo. Entrambe, Intesa ed Eni, sono anche sponsor del teatro.
Il tutto avviene in un contesto in cuiil sovrintendente Stéphane Lissner è sotto accusa perché proprio la Scala nell’anno verdiano aprirà la stagione con il Lohengrin di Wagner. Sembra una vicenda solo per melomani, ma, come sempre quando si tratta di Scala, non lo è. Certo, il 2013 è anche l’anno del bicentenario della nascita del compositore tedesco ma salta subito all’occhio la scelta di privilegare Wagner rispetto a Verdi. Fra l’altro in un teatro come quello del Piermarini a cui Verdi era così legato (lo stesso Falstaff fu scritto per la Scala su libretto di Boito) senza manco citare il ruolo avuto dal compositore parmigiano nella storia dell’Unità di Italia. Il teatro la Fenice a Venezia ha fatto una doppia apertura, una con Verdi (Otello) e una con Wagner (Tristan und Isolde). Un espediente doroteo, dice qualcuno, ma ha funzionato. Gli stessi critici dell’attuale gestione sostengono che la scelta della Scala sembra essere stata dettata da ragioni non delle più nobili. «Il Verdi di Barenboim non incanta» titolò Il Giornale in un pezzo di Giovanni Gavazzeni a proposito del concerto inagurale della stagione 2011/2012 della Filarmonica della Scala. Oppure ricordano altri episodi fra cui i fischi all’Aida diretta dallo stesso Barenboim. Insomma, la ragione per cui cui la Scala apre con Wagner nonostante sia considerata la Bayreuth di Verdi sembra a molti più legata ad alcune carenza del maestro argentino che non ad altro. Che Barenboim sia sì bravo, ma non sia Karajan o Abbado, appare ormai chiaro e questa strana decisione, dicono, appare più legata a questo fattore che ad altri. Se vero, non è esattamente una ragione di cui andare fieri. Se quella partitura arriverà davvero in città, l’evento verdiano l’avranno offerto due membri del cda che in quel modo avranno posto rimedio a un’ omissione di cui è accusata la gestione della Scala.
Lo strano approccio del Corriere. Se qualcuno è capace di spiegare la scelta del Corriere di oggi, prego si faccia avanti. Il principale quotidiano milanese dedica un articolo già dalla prima pagina («Non disperdiamo i ricordi di Toscanini») a un’altra asta, quella del 19 dicembre in cui verranno venduti alcuni cimeli e memorabilia toscaniniani quali la bacchetta, il frac e una serie di lettere e telegrammi, invitando la città alla mobilitazione. Non si vogliono fare lezioni a nessuno, ma colpisce che non scriva dell’asta di Londra (salvo citarla di corsa confondendola con New York) dove invece viene battuta appunto questa copia del Falstaff. E fra l’altro, la notizia dell’impegno di Bazoli e Micheli per l’ultima opera di Verdi è di ieri sera. Nessuno vuole sminuire l’importanza di questi cimeli. La vita di Toscanini va insegnata ai bimbi non solo per l’immensa dimensione artistica. Gli schiaffi che prese quel 14 maggio 1937 al Comunale di Bologna, per essersi riufiutato di eseguire Giovinezza, sono ciò che resta fra noi e il Conformista. Ma perché scrivere solo dell’asta milanese di preziosi memorabilia e non di quella londinese dove viene battuta quella copia del Falstaff resta un mistero di quelli con cui i dietrologi domenicali vanno a nozze.
Conclusione. Non abbiamo mai evitato critiche alla finanza e ai poteri e abbiamo lanciato questo appello alla sottoscrizione pubblica, consapevoli con Marcel Mauss che «ogni dono è una richiesta». Così come abbiamo appunto ricordato quando Milano seppe mobilitarsi per la Pietà Rondanini nel 1952 (l’iniziativa, in quel caso, fu dell’allora sindaco Ferrari). Fatte le dovute proporzioni, si poteva ripetere quell’esperienza. E lo abbiamo fatto, ora non ci resta che aspettare l’esito dell’asta e ringraziare chi ha supportato la nostra iniziativa.
Nel gennaio del 1901 i milanesi sparsero la paglia in via Manzoni perché le carrozze non disturbassero l’anziano compositore che si stava spegnendo nella sua stanza al Grand Hotel et De Milan. Quando morì e la bara fu translata a Casa Verdi, la casa di riposo per musicisti da lui fondata, si presentarono circa 100 mila persone in una città che all’epoca aveva 490 mila abitanti, vale a dire quasi un quinto. «Viva Verdi» significa troppe cose per poterle dimenticare e i giornali servono anche a questo.
Twitter: @jacopobarigazzi
La folla al funerale di Giuseppe Verdi