“La pecca di Obama? Troppo timido con le banche”

“La pecca di Obama? Troppo timido con le banche”

Nel 2012 gli Stati Uniti dovrebbero crescere, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, del 2,2 per cento. Un dato ben diverso da quello tedesco (+0,9%), francese (+0,1%) o italiano (-2,3%). Che testimonia la vitalità e la forza dell’economia statunitense. Non a caso, secondo le ultime proiezioni del Bureau of Economic Analysis, il Pil reale dovrebbe registrare, nel terzo trimestre dell’anno, un tasso di crescita annualizzato del 2 per cento.

E dire che sino a poco tempo fa erano in molti a pronosticare la fine del modello economico americano. Nel 2008 sembrava che la prima potenza industriale del pianeta fosse sull’orlo del collasso. Che la «crisi dei mutui subprime» avrebbe scatenato una Grande depressione paragonabile a quella iniziata nel 1929. «La fine del capitalismo americano?», si chiedevano blasonati giornali dell’East Coast. «Il futuro è dei Bric», rispondevano altri.

In effetti nel 2008 furono 25 le banche a fallire. Era solo l’inizio. Il loro numero sarebbe salito a 140 nel 2009 e a ben 157 nel 2010. Il Dow Jones, che nell’ottobre del 2007 aveva superato i quattordicimila punti, sarebbe sceso sotto i settemila nel marzo del 2009. E il Pil, che ancora nel 2007 cresceva di quasi il 2%, due anni dopo si sarebbe contratto di oltre il 3 per cento.

Oggi però tutto sembra diverso. Il malato economico globale non è più l’America dei mutui tossici e del manifatturiero in ginocchio, ma l’Europa, impantanata in una crisi che a detta del cancelliere tedesco Angela Merkel durerà almeno altri cinque anni. Aziende statunitensi come la Apple o Google, invece, sono un modello per le aziende di tutto il mondo. E la Silicon Valley rimane il motore planetario dell’innovazione, come ha recentemente sottolineato su questo giornale Enrico Moretti, docente di economia a Berkeley. Persino Detroit, simbolo della crisi made in Usa, offre interessanti spazi di riflessione, come ha detto Alessandro Coppola, studioso dei fenomeni urbani. E proprio per capire qual è il vero stato di salute dell’economia americana, Linkiesta ha intervistato la professoressa Veronica Guerrieri, docente di economia alla Booth School of Business della University of Chicago. Trentasei anni, livornese, laurea alla Bocconi e PhD al Mit, la Guerrieri è cautamente ottimista. Anche se, come ha sottolineato nel corso dell’intervista, le sfide non mancano.

Professoressa, qual è il suo giudizio complessivo sullo stato dell’economia americana?
L’economia americana è sicuramente un’economia che ha sofferto molto durante la crisi del 2008-2009. Un’economia, tuttavia, che ora sta andando verso una ripresa graduale, lenta. Recentemente ci sono stati segnali positivi, soprattutto nel settore immobiliare, e in quello del mercato del lavoro, che è il settore più difficile. A settembre la disoccupazione è scesa sotto la soglia dell’8%, ed è una soglia importante, soprattutto considerando che gli Stati Uniti hanno sempre avuto una disoccupazione molto bassa rispetto ai livelli europei.

Nel 2008 tutti pronosticavano la fine del modello americano. Avevano torto. Nel 2012, secondo le proiezioni del Fmi, gli Stati Uniti dovrebbero crescere del 2,2%, mentre il Pil dell’Eurozona dovrebbe contrarsi dello 0,4 per cento.
Sicuramente l’economia americana ha dimostrato una grande capacità di ripresa dopo essere passata attraverso la recessione più significativa dai tempi della Grande depressione. Certo, la capacità di ripresa degli Stati Uniti ha sorpreso positivamente. A mio parere questo risultato è frutto di coraggiose scelte di politica economica, che hanno rimesso in sesto il sistema finanziario piuttosto velocemente. E che hanno usato la politica fiscale in modo intelligente, per compensare la drammatica riduzione della spesa privata. Per capirlo basta comparare, come suggerisce lei, il tasso di crescita dell’economia americana pari al 2,2% con quello, negativo, dell’Eurozona: un disastro. Probabilmente le politiche di contrazione fiscale varate dall’Europa non hanno contribuito a garantire una ripresa simile a quella americana.

Peraltro se la ripresa dei consumi è stata particolarmente lenta in questi anni, ciò è stato senza dubbio causato dalla particolare natura della crisi, che è nata in una situazione di forte indebitamento delle famiglie americane. Il loro debito era cresciuto fino a raggiungere il 100% del Pil. In una situazione del genere, con il crollo dei valori immobiliari e la crisi bancaria, le famiglie americane hanno dovuto ripagare i loro debiti e tagliare i consumi. E questo, chiaramente, è stato un processo molto lento, e i consumi hanno tardato a riprendersi. Ecco perché a mio parere è molto importante il dato sul mercato immobiliare, il fatto che i valori delle case stiano risalendo. Ci sono famiglie con debiti più alti delle loro proprietà immobiliari. Quindi se i valori immobiliari migliorano e queste famiglie riescono a uscire da una situazione di indebitamento così problematica, sicuramente i consumi riprenderanno più velocemente.

E per quanto riguarda le esportazioni? L’America è sempre più orientata verso l’export…
Per quanto riguarda le esportazioni, il dato principale dietro questa ripresa dell’export così veloce è la crescita della domanda dal resto del mondo, e in particolare da Paesi emergenti come la Cina. Ciò è molto positivo perché il modello di crescita mondiale pre-crisi era basato su quello che gli economisti chiamavano global imbalance (squilibrio globale), cioè su un modello caratterizzato da uno sbilanciamento nella composizione della domanda mondiale, che era trainata dai consumi americani, con tassi di risparmio più elevati nei Paesi emergenti. Il fatto che di recente Paesi come la Cina abbiano invece cominciato a spendere e consumare di più, consentendo all’economia americana di aumentare le esportazioni, è un dato positivo dal punto di vista della stabilità dell’economia mondiale.

Di recente Linkiesta ha parlato con altri due giovani accademici italiani che conoscono bene o insegnano negli Stati Uniti: Alessandro Coppola ed Enrico Moretti. Nelle discussioni con loro si è parlato spesso di Detroit, la metropoli del Michigan che è un simbolo della fine del vecchio settore manifatturiero americano. 
Io ho studiato il caso di Detroit dal punto di vista dei valori immobiliari. Ero interessata a capire cosa ci fosse dietro la crescita dei prezzi immobiliari nelle varie città.

Intende dire la crescita dei prezzi immobiliari prima dello scoppio della bolla immobiliare nel 2008?
Sì. Il mio studio è più uno studio di lungo periodo che di breve periodo. È uno studio che non vuole spiegare la recente bolla dei valori immobiliari in America, ma è orientato al lungo periodo, cioè alla crescita generale dei prezzi nei vari quartieri di una città. Uno studio sulla geografia della città, su come i prezzi crescano nei diversi quartieri, su come lo sviluppo di una città influenzi la crescita dei prezzi nei vari quartieri. Il punto fondamentale della mia ricerca è un fenomeno che negli Stati Uniti si chiama gentrification. La gentrification è la tendenza, nelle città, all’agglomerazione intorno ai quartieri dove vive la gente più ricca, e questa preferenza delle persone a vivere accanto ai più abbienti nasce da diverse ragioni, ad esempio il fatto che stando vicino a persone più ricche si ha accesso a più servizi. Perché un maggior numero di servizi nasce in zone dove c’è più domanda, e quindi più ricchezza crea più ristoranti, più servizi pubblici, scuole migliori. Quando una città si espande, e arriva nuova popolazione, dove vanno i nuovi arrivati? Nei quartieri vicini a quelli dei ricchi. Quindi si verifica una crescita dei prezzi nei quartieri vicini ai quartieri più ricchi che è assai più alta della crescita dei prezzi nei quartieri più ricchi.

Nei quartieri contigui a quelli più ricchi c’è dunque una maggior crescita dei valori immobiliari rispetto ai quartieri ricchi stessi?
Esatto, è un dato che tendenzialmente non ci aspetteremmo. Consideriamo Manhattan. Se improvvisamente i tassi di interesse scendono e tutti vogliono comprare più case, dove le comprano? Ci si aspetta che tutti vogliano vivere nei quartieri più affollati del centro, e che lì i prezzi aumentino molto. In realtà i dati dicono che i prezzi aumentano ancora di più nei quartieri vicini, come Harlem, vicino alla Columbia University, dove prima vivevano famiglie povere, principalmente nere, che sono state mandate via quando è stato allargato il campus, e quando sono arrivati nuovi ricchi, che si sono installati in quelle zone.

Il mercato immobiliare americano si sta un po’ riprendendo, ma è difficile che ritorni presto ai picchi pre-crisi…
Sicuramente fino al 2006 i prezzi erano saliti molto. Le ragioni di questa bolla non sono chiare. Di sicuro vari fattori hanno contribuito a essa. Ad esempio tassi di interesse particolarmente bassi, che hanno spinto verso una securitization sfrenata. Ma questo fortissimo sviluppo finanziario ha creato un accumulo di indebitamento tra le famiglie, che ha così contribuito alla crescita dei prezzi immobiliari. Non penso però che questo tornerà a verificarsi nei prossimi anni, anche perché le banche sono diventate molto più prudenti nell’erogare prestiti alle famiglie americane. 

C’è poi un dato che colpisce molto. La crescente sperequazione economica. Qual è la sua opinione in merito?
Senza dubbio la crescente diseguaglianza è uno dei problemi fondamentali da affrontare qui in America. Gli economisti sono concordi nel ritenere che una delle principali cause della crescita della diseguaglianza sia la particolare natura dello sviluppo tecnologico negli ultimi 40 anni. Che ha favorito molto la produttività dei lavoratori altamente qualificati, ossia quei lavoratori con una laurea o magari un titolo post-laurea, e che hanno potuto sfruttare la rivoluzione dell’ICT. Invece hanno perso terreno coloro che non hanno potuto approfittare di questo profondo cambiamento, in particolare i lavoratori del settore manifatturiero, gli impiegati con un basso livello di qualificazione. I cambiamenti tecnologici hanno veramente generato un aumento significativo del gap dei salari tra lavoratori qualificati e lavoratori non qualificati. Si tratta di un grosso problema, che si può tentare di risolvere solo investendo nell’istruzione, che in America è davvero molto costosa, dando accesso ai meno abbienti.

Nei prossimi anni questo trend di diseguaglianza si dovrebbe acuire?
C’è una tendenza al peggioramento. Lo sviluppo tecnologico sembra destinato ad acuire questo problema. C’è forse un altro dato che potrebbe in qualche modo mitigare tale tendenza, ed è il forte invecchiamento della popolazione, dovuto ai famosi baby boomer, che dovrebbero andare in pensione tra poco. Questo implicherà, probabilmente, un aumento della domanda di servizi personali, servizi di assistenza agli anziani, dove ci potrebbe essere richiesta anche di lavoratori meno qualificati. Tuttavia nel complesso lo sviluppo tecnologico sembra continuare nella direzione di favorire i lavoratori più istruiti. A scapito dell’uguaglianza.

E qual è la situazione delle donne in America? Dai dati risulta che gli Stati Uniti se la cavano abbastanza bene. 
Essendo una donna che lavora negli Stati Uniti questa domanda mi sta particolarmente a cuore. La mia impressione conferma quanto lei dice. Di sicuro qui non ho mai percepito alcuna discriminazione sul luogo di lavoro. Mi sembra anzi che gli Stati Uniti siano molto avanti nel trattamento paritario tra uomini e donne. E questa chiaramente è una grande forza dell’America. Anche perché quando qualsiasi forma di discriminazione viene eliminata, viene dato più spazio al merito. Di sicuro l’America è più avanti dell’Italia, ma anche di altri Paesi europei. Secondo uno studio fatto da alcuni miei colleghi si ritiene che la meritocrazia, e la riduzione delle discriminazioni di razza e genere, abbiano contribuito in modo decisivo al dinamismo dell’economia americana negli ultimi cinquant’anni.

Lei lavora in un centro accademico che è considerato, almeno qui in Europa, a torto o a ragione, la roccaforte del pensiero liberista. Come giudica l’operato di Obama?
Ho una visione molto positiva dell’operato di Barack Obama. Un operato coraggioso in un momento molto difficile per l’economia americana. Obama ha compiuto scelte molto difficili per salvare il sistema bancario, in modo da garantire una ripresa abbastanza veloce dell’economia, ed è riuscito a portare avanti la riforma del sistema sanitario, uno dei problemi strutturali dell’economia americana. Se devo trovare una pecca nell’operato di Obama, forse è stato timido nel non portare avanti sino in fondo la riforma del sistema bancario, la regolamentazione di esso. La riforma attuale rappresenta un passo avanti ma bisogna ancora perfezionarla con i regolamenti attuativi, e qui rimangono delle incertezze.

E come giudica le ricette economiche di Romney?
Sembra che Mitt Romney e il suo vice Paul Ryan puntino sull’austerità fiscale. L’aggiustamento del bilancio pubblico è sicuramente necessario nel medio/lungo periodo. Tuttavia, data l’attuale situazione economica americana, trovo rischiosa una severa contrazione fiscale a breve. Anche se c’è un inizio di ripresa, l’economia ha ancora una lunga strada da percorrere per ritornare a una situazione di stabilità. In un momento di ripresa così lenta tagliare la spesa pubblica potrebbe essere un errore. Basta guardare a quanto è successo in Europa, dove purtroppo non c’era alternativa all’aggiustamento fiscale immediato e il risultato è, appunto, una crescita negativa. Peraltro Romney e Ryan vogliono ridurre le tasse ai ricchi, il che sembra non coerente con il loro messaggio di austerità fiscale. In più, da un punto di vista personale, trovo questa posizione in contrasto con la mia idea di equità sociale.

Un’ultima domanda. Secondo lei quali saranno le forze che modelleranno di più l’economia americana nei prossimi decenni?
Le forze principali che modelleranno l’economia americana nel prossimo futuro saranno l’innovazione e il rischio. La capacità degli imprenditori americani, cioè, di assumersi dei rischi per investire in campi dove l’innovazione è centrale.

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