Corea verso il voto, se la politica non rovina l’economia sarà un successo

Corea verso il voto, se la politica non rovina l’economia sarà un successo

SEOUL – Le ultime elezioni dell’anno si svolgono mercoledì 19 dicembre, in Corea del Sud. Chiudono un periodo di 12 mesi ricco di avvenimenti politici in Asia nord-orientale – ormai il centro economico del mondo – che si è aperto il 17 dicembre 2011 con la morte di Kim Jong-il ed è proseguito con l’arrivo al potere a Pyongyang del figlio Jong-un e transizioni a Pechino e Tokyo, oltre che a Ulan Bator e Hong Kong. Transizioni ma non necessariamente nuovi leader: Xi Jinping era vice-presidente e Shinzo Abe, che tutto lascia prevedere prevarrà nelle consultazioni nipponiche, è già stato primo ministro del Giappone, come del resto suo nonno. E non c’è bisogno di ricordare che con il nipote di Kim Il-sung, sono 67 anni che la Corea del Nord è governata dalla stessa monarchia socialista.

A Seoul, in compenso, l’unica sicurezza è che il prossimo inquilino della Casa Blu non ha mai ricoperto incarichi di governo. Ma non per questo si può dire che i due principali candidati in lizza siano pivellini alle prime armi. Park Geun-hye, 60 anni, siede in Parlamento dal 1998 e ha diretto il partito conservatore (il Grand National Party, ribattezzato Saenuri quest’anno) dal 2004 al 2006 e dal 2011 al 2012, quando lo ha portato alla vittoria, contro tutti i pronostici, nelle elezioni parlamentari di aprile. Il rivale di centro-sinistra è Moon Jae-in, di un anno più giovane: avvocato, ha fatto da capo di gabinetto (un incarico che nel sistema presidenziale coreano è di grandissimo potere) per il Presidente Roh Mu-hyun nel 2007-08.

I coreani non sono molto soddisfatti della propria classe politica, che considerano corrotta, prona alle scazzottate parlamentari e incapace di discutere dei veri problemi del paese – che cresce sì a tassi elevati, ma dove la gente percepisce un crescente sentimento di vulnerabilità economica.

Alle elezioni parlamentari di aprile l’ha fatta da padrone l’astensionismo, oltre il 50%, e quello che pensava di rottamare tutti, Ahn Chul-soo. Negli ultimi anni l’imprenditore della nuova economia (inventò un anti-virus che McAfee avrebbe voluto), poi convertitosi all’insegnamento, era diventato l’icona dei riformatori e dei giovani e sembrava avere il vento in poppa per diventare il primo indipendente eletto leader di un paese del G20. Ma il suo tentativo di fare campagna senza un partito alle spalle è fallito e dalle negoziazioni con Moon per arrivare a una candidatura unica è uscito con le ossa abbastanza rotte. Dopo essersi ritirato dalla corsa presidenziale a fine novembre, ha deciso di appoggiare Moon, ma è poco chiaro se i suoi sostenitori lo seguiranno.

Chi vincerà non lo sa veramente nessuno, tanto ridotto è il distacco secondo i sondaggi. L’elezione si giocherà sul tasso di partecipazione e in più peserà moltissimo l’aspetto demografico. Se a votare saranno meno di due terzi degli aventi diritto, Park Geun-hye dovrebbe fare il pieno dei voti tra gli ultra-cinquantenni e soprattutto tra le ajummas, le signore di mezza età attratte da una candidata che si promuove come una madre che protegge la sua famiglia (rivelando tra l’altro una discreta chutzpah, dato che non ha figli). Se invece l’affluenza sarà consistente, vorrà dire che i giovani e i seguaci di Ahn sono stati convinti da Moon. Un’altra dimensione rilevante è quella geografica: Moon cerca d’intaccare il dominio del centro-destra a Gyeongsang e Daegu, di cui è originaria Park, che in compenso attacca sulle terre tradizionali dell’opposizione, Jolla e Busan, dove ha visto i natali Moon.

Ma la variabile principale è la personalità dei candidati. Park è infatti la figlia di Park Chung-hee, presidente dal 1963 al 1979, quando venne assassinato da uno dei suoi generali, dopo essere sopravvissuto a un attentato nel 1974 che costò la vita alla moglie. Al generale probabilmente la Corea deve molto, perché è sotto il suo impulso che il paese si è lanciato sul cammino dell’industrializzazione a tappe forzate, con i risultati che tutti conosciamo – per non citarne che uno, il fatto che quest’anno sembra destinato a prendere il posto dell’Italia come ottava potenza commerciale al mondo. Ma a lui i coreani possono addebitare anche molto: un lungo periodo di repressione politica a volte anche molto violenta e un modello di sviluppo economico dominato dalle grande imprese, i chaebol, che appare sempre più iniquo, anche se i successi della Samsung o della Hyundai riempiono di orgoglio l’opinione pubblica.

La figlia gioca su quest’ambiguità, e quando le è stato chiesto di giudicare l’eredità paterna ha risposto «non credo che la gente voglia vedere una figlia sputare sulla tomba del proprio padre». Una maniera più o meno elegante per chiamarsi fuori, ma anche per ricordare che il padre aveva risposto alle critiche al suo stile di governo dicendo che era convinto di stare facendo ciò che era necessario per combattere i comunisti e di non preoccuparsi se qualcuno avrebbe poi sputato sulla sua tomba.

Se non fosse per i tratti somatici, invece, Moon sembrerebbe uscito da un meeting del Partito Democratico nostrano, con la giacca di tweed e gli occhialini da libero professionista illuminato. Nello spot della sua campagna è a casa, impegnato a preparare un discorso, avvolto in un cardigan mentre la moglie gli stira l’abito. Così pacato e compassato che durante i primi due dibattiti televisivi ha finito per spadroneggiare la candidata dell’estrema sinistra, che non ha smesso di provocare Park sul suo passato.

Non a caso è difficile trovare differenze fondamentali nelle politiche proposte dai due candidati principali. Certo, Park in passato ha proposto un’agenda di liberalizzazione, che è poi quella che ha cercato di realizzare Lee Myung-bak, ma dato che il presidente uscente ha indici di popolarità imbarazzanti, la candidata si guarda bene dal rivendicarne l’eredità. Preferisce sbandierare lo stesso stendardo di Moon, quello della democrazia economica, uno slogan vago che copre un vasto insieme di rivendicazioni contro i chaebol e di obiettivi di maggiore equità sociale, ma che per il momento pochi sanno come concretizzare. Park sembra propensa a una specie di congelamento del potere dei chaebol, mentre Moon vorrebbe obbligarli a rinunciare alle partecipazioni incrociate che permettono alle famiglie di controllare degli imperi con una quota limitata del capitale.

Stessa comunanza di vedute sulle riforme politiche: ambedue vogliono diminuire i poteri del presidente e togliere ai partiti il controllo sulle liste elettorali. Del resto sia il centro-destra sia il centro-sinistra sono ricorsi alle primarie per nominare i propri candidati, anche se con procedure complicate che hanno sconcertato l’elettore medio. Nessuno dei due invece ha fatto sua la proposta di Ahn di ridurre il numero di parlamentari (che peraltro sono solo 300, meno di un terzo che in Italia, per una popolazione di 50 milioni d’abitanti …).

Per il momento, poche le differenze anche sulla politica estera, che in Corea del Sud ovviamente vuol dire anche relazioni inter-coreane. Dopo la stagione della Sunshine Policy dei due presidenti di centro-sinistra, Kim Dae-jung e Roh, Lee Myung-bak ha chiuso la porta al dialogo senza condizioni e le continue provocazioni di Kim Jong-il sembravano dargli ragione. Di fronte all’apparente tolleranza, e magari anche disponibilità alle riforme economiche, di Kim Jong-un, sia Moon sia Park hanno dichiarato di voler riannodare il dialogo, anche se la prima lo condiziona alla denuclearizzazione, mentre il secondo vorrebbe separare i dossier.

Il lancio del razzo Unha-3, mercoledì 12, suggerisce che Pyongyang non ha nessuna intenzione di cambiare strategia; il suo apparente successo aumenta l’inquietudine a Seoul (che il mese scorso ha dovuto rinunciare alla messa in orbita del suo satellite) e altrove; la sorpresa con cui ha colto i sud-coreani solleva interrogativi sui servizi di informazione; e lo schiaffo dato a Pechino, che aveva consigliato la prudenza e di evitare le provocazioni a ridosso delle elezioni in Corea (e in Giappone) e nel mezzo della transizione a Pechino (e a Washington), apre interrogativi sulla strategia del Grande Successore con il potente vicino.

La domanda fondamentale è se la politica sarà capace di fare la sua parte. Quello del paese del Mattino Calmo è stato un miracolo, ottenuto con politiche, istituzioni e scelte che iniziano a invecchiare e suscitare interrogativi. Per consolidare i risultati, e fare davvero della Corea la terza grande potenza dell’Asia nord-orientale, è necessario porre in dubbio le certezze del passato – che i chaebol siano intoccabili, che a 17 anni un test a risposte multiple determini l’avvenire di un individuo, che la pressione impositiva rimanga ben inferiore alla media Ocse, ma ovviamente anche la spesa sociale. È per molti versi la situazione che il Giappone viveva negli anni 80. Lì l’incapacità della classe dirigente di scuotere il sistema ha fatto piombare il paese nella stagnazione. Speriamo che a Seoul sappiano apprendere dagli errori altrui.