DUBAI CITY – In questo periodo non si legge e non si sente parlar d’altro: gli Emirati sono un Paese stabile e solido politicamente, un porto sicuro dove investire. La Primavera araba ha risparmiato questa zona del Golfo, anzi Dubai, Abu Dhabi e gli altri cinque emirati hanno tratto un enorme vantaggio dalla crisi dei paesi arabi vicini e lontani. In effetti grossi e piccoli investitori, non solo occidentali, ma soprattutto provenienti da altri paesi musulmani, hanno trasferito negli Emirati i loro affari, e spesso anche i loro headquarter, dall’Egitto, dalla Siria, dalla Libia, dal Bahrain. Insomma, tra le difficoltà economiche dell’Occidente e le rivoluzioni politiche del Medio Oriente, gli Emirati sembra proprio ci abbiano guadagnato. Tanto da venir collocati nella categoria rischio paese dell’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), al livello 2 su 7, eccezione assoluta per questa parte del mondo.
Dubai é ripartita a pieni ritmi, come non accadeva dal pre crisi 2009. Già lo scorso anno si é registrata una crescita del pil del 3.5%, grazie ai proventi petroliferi e all’espansione crescente dell’economia non petrolifera. Ma il 2012 sta andando ancora meglio: le previsioni parlano di un più 4,6% (i dati arrivano dall’Economist Intelligence Unit). Percentuali che si stanno velocemente avvicinano alla crescita del quinquennio pre 2008, che girava intorno al 6-7% annuo. Nulla di strano, dunque, se i cantieri hanno ripreso a lavorare 24 ore su 24, se spuntano nuovi quartieri in mezzo al deserto e se ha ricominciato ad arrivare gente da tutto il mondo. Con un lieve cambiamento di provenienza: il governo ha deciso di allentare un po’ con l’agonizzante Europa, e di aprire agli altri Paesi musulmani. Così a Dubai Marina, zona di grattacieli sul mare abitata principalmente da occidentali, sono in costruzione tre moschee (finora non ce n’era nessuna) e la maggior parte dei nuovi arrivati non parla più inglese o tedesco, ma arabo.
A parte la comunità italiana, che va in controtendenza (i dati arrivano dall’Aire, l’associazione italiana residenti all’estero). Ed é perfino nata (riconosciuta ufficialmente dal governo emiratino) l’Associazione Italiana Dubai. Insomma, gli Emirati hanno deciso di puntare (e investire) sulla penisola più amata dagli sceicchi. «Il mio Paese ha una relazione speciale con l’Italia», ha detto il ministro dell’Economia emiratino Sultan Al Mansouri durante la sua visita a Roma, seguita poi da quella di Mario Monti ad Abu Dhabi qualche settimana fa. «E la nostra volontà – ha proseguito – e quella di stringere nuove joint venture, soprattutto con le piccole e medie imprese. In particolare nei settori delle energie rinnovabili, dell’elettricità, del gas e del turismo». Di fatto, ha ribadito agli imprenditori italiani di impegnarsi, e anche di cominciare a produrre, negli Emirati: un paese tax free e che apre al mercato crescente dell’altra metà del mondo.
Secondo l’ultima relazione di interscambio Italia-Uae della Camera di commercio italiana negli Emirati, nel 2011 le esportazioni italiane verso gli Emirati hanno registrato un aumento del 28,5% rispetto al 2010. L’interscambio complessivo tra i due Paesi ha fatto registrare lo scorso anno 5.597.081.628 euro, con un saldo attivo di 3.873.980.340 euro, formato da 861.550.644 euro di importazioni e 4.735.530.984 euro di esportazioni. E nei primi tre trimestri del 2012 le esportazioni italiane negli Emirati hanno registrato un’ulteriore crescita del 26,99%. Le prime cinque voci per valore economico? Apparecchiature, strumentazioni e macchinari (704 milioni di euro), gioielleria e orologi (482 milioni di euro), settore chimico e minerali (382 milioni di euro), interior design (250 milioni di euro), abbigliamento e accessori (163 milioni di euro).
Eppure, come accade troppo spesso in questa desolata estremità del Quarto vuoto, sotto la sabbia si nasconde sempre qualcos’altro. Basta solo scavare un po’. E a guardare bene, si scopre che negli ultimi tre mesi sono stati arrestati 68 cittadini emiratini (il numero cresce di mese in mese): prelevati dalle proprie abitazioni e incarcerati. Alcuni di loro non si sa nemmeno dove siano detenuti, come l’avvocato Mohamed Al Mansoori, storico attivista per i diritti umani. Le dichiarazioni che ci aveva rilasciato un anno fa suonano ora profetiche: «La situazione qui – aveva detto – non é molto diversa rispetto agli altri paesi arabi. Nel mio Paese non c’é uguaglianza tra i cittadini né rispetto per i diritti umani: gli Emirati non sono uno stato civile, ma uno stato di polizia. Non è concessa la partecipazione politica del popolo e chi ci governa é convinto sia sufficiente un Pil alto per controllare il Paese: pensano che anche le persone siano una loro proprietà e non condividono nulla democraticamente con i “cittadini”».
Insieme a lui sono stati messi a tacere tutti coloro che hanno avuto la lucidità e il coraggio di dire come funzionano le cose sotto questo regime camuffato da Paese aperto, tollerante e attento ai cittadini. In realtà, il malcontento sta da tempo dilagando anche qui, soprattutto nella zona nord del paese, la più povera. E così chi chiede riforme, democrazia e un’equa distribuzione delle ricchezze, scompare. Tra gli altri sono stati arrestati personalità di spicco come Mohammed Saeed Ziab Abdouly, presidente della Corte penale di Abu Dhabi, l’avvocato Mohamed al-Roken, Gom’ah Darwish Al Falasi, tra i fondatori dell’Emirates Association for Human Rights, i giudici Ahmed El-Zahghaby, Khamis El-Som El-Zaiwadi e Ali Saaed El-Kindi.
Human Rights Watch ha scritto al presidente Khalifa Bin Zayed Al Nahyan, ricordando che gli Emirati hanno aderito alla “Convenzione Onu contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” e alla “Carta araba dei diritti dell’uomo”. Ma a parte la pressione delle associazioni, nessuno prende posizione contro la tragica repressione in atto. Che a Dubai e negli Emirati rimanga tutto forzatamente tranquillo e stabile fa evidentemente comodo a tutti: qui sono in ballo gli affari di buona parte dei Paesi arabi e occidentali. Interessi troppo grandi perché qualcosa possa davvero cambiare.