2013 la morte del federalismo. Anche i sindaci diventano peones

2013 la morte del federalismo. Anche i sindaci diventano peones

Da sindaci a peones, dal territorio al seggio romano: il mesto tramonto dell’autonomismo tricolore. Anche questo sta raccontando il deposito delle liste elettorali.

Dopo il biennio di Mani Pulite, lo sviluppo locale è stata la via italiana alla modernizzazione del Paese. Il referendum sul maggioritario, l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia (Legge 81 del 1993), insieme alla riforma delle fondazioni bancarie con la riforma Amato, sono stati la risposta al crollo della Prima Repubblica. Cancellata un’intera classe dirigente, finito il ciclo novecentesco dei partiti di massa, i sindaci diventano insieme a Bankitalia la vera riserva del paese su tre parole d’ordine: moralità, competenza e innovazione. Il serbatoio potenziale da cui attingere nuova classe dirigente rispetto a partiti esausti e autoreferenziali.

“Tanti nuovi piccoli presidenti”, titola il Sole 24Ore un’analisi del 22 agosto 1999 firmata da Ilvo Diamanti: “La nuova legge trasforma i borgomastri tra le figure più legittimate del panorama politico italiano, in grado di competere con i principali leader nazionali sul piano della popolarità e dell’autorevolezza…”.

Il ragionamento di Diamanti corre ex post alla stagione dei grandi duelli cittadini del 1993. Antonio Bassolino contro Alessandra Mussolini a Napoli, che darà vita all’effimero rinascimento napoletano sfociato nel G-8 di Clinton e Berlusconi, Hillary & Veronica. Valentino Castellani contro Diego Novelli a Torino, che anticipa il riformismo municipale del successore Sergio Chiamparino. Il leghista Marco Formentini contro Nando Dalla Chiesa a Milano. Enzo Bianco che vince a Catania. Leoluca Orlando a Palermo. Massimo Cacciari a Venezia. Maurizio Fistarol a Belluno. Riccardo Illy a Trieste ma soprattutto Francesco Rutelli contro Gianfranco Fini a Roma: è qui che Berlusconi, guarda caso, fa la prima uscita politica dichiarando che lui, fosse residente in città, voterebbe sicuramente Gianfranco (strana nemesi!). Lo stesso Rutelli, cinque anni dopo, fonderà con Cacciari, Ermete Realacci e Bianco “Centocittà”, poi confluito nella Margherita, che rappresenta il tentativo più compiuto di trasformare un’esperienza locale in sintesi partitica nazionale.

Per un tratto il partito dei sindaci sembra poter essere, finalmente, la versione aggiornata di un certo municipalismo sturziano, il ritorno alle origini di un’Italia consumata dal centralismo ma che resta, in fondo, il Paese dei cento campanili e delle autonomie.

Anche il nuovo corso della finanza locale va a braccetto con la primavera politica. Il superamento dei tanto vituperati rimborsi a pie’ di lista, fissato con la Legge 142 del 1990 e applicato nel decreto legislativo 504 del 1992, inaugura di fatto la stagione autonomista: tributi propri, addizionali, compartecipazioni e razionalizzazione dei trasferimenti dal centro alla periferia. Per i cittadini la svolta prende il nome di Ici, l’imposta comunale sugli immobili introdotta nel 1993, ancorata a una base imponibile ampia che garantisce gettiti elevati con aliquote ridotte. Se prendiamo i trasferimenti ai comuni italiani, il primo grosso taglio di 4 miliardi (dai 17,6 miliardi del 93 ai 13,6 del ‘94) viene appunto compensato dall’avvio dell’Ici, il cui gettito vale 10mila miliardi di vecchie lire (quando nel luglio 2008 Silvio Berlusconi la abolisce sulla prima casa, rendeva 3,3 miliardi). Nel biennio 1997-99 parte il processo di decentramento amministrativo conosciuto col nome di Leggi Bassanini. Fino ad arrivare nel 2001, ultima tappa dei travagliati governi dell’Ulivo, alla Riforma del Titolo V della Costituzione.

In sostanza negli anni Novanta, pur tra mille contraddizioni, gli enti locali sembrano accompagnare e consolidare questa via italiana al decentramento: leva fiscale, autonomia impositiva e patto di stabilità intelligente.

Sarà un fuoco di paglia. Più l’approdo federalista si avvicina, sospinto dalla pressione politica della Lega Nord al governo, più da Roma aumentano i tagli, si (ri)centralizza la spesa, si bloccano le addizionali Irpef (lo fa il Berlusconi bis dal gennaio 2002 praticamente a fine mandato, poi Prodi le sblocca nel 2006 e il Cavaliere le ri-blocca nel 2008 per un triennio) e, soprattutto, si cambia il patto di stabilità. Fino al 2001, con Piero Giarda alla finanza locale del Tesoro, la spesa per investimenti non rientra nel computo. Con il ritorno del centrodestra a palazzo Chigi, dal 2004 si passa dalla tecnica dei tagli a quella dei saldi. Si fissano alcune voci di spesa corrente e in conto capitale e su queste si calcola il Patto. Dal 2005 a oggi, secondo le stime di Bankitalia, il nuovo meccanismo produce un crollo degli investimenti locali del 42%, nonostante a livello macro i comuni abbiano contribuito a migliorare i saldi del debito pubblico per 3 miliardi di euro.

«È paradossale che un governo così nordista, con il mio conterraneo Monti e Passera, applichi l’Imu spostando il gettito a Roma…», ha ironizzato qualche mese fa Roberto Maroni. In realtà nemmeno il Carroccio ha titoli da vantare. Il senso del federalismo fiscale che pure hanno varato consiste nella trasformazione delle risorse trasferite dallo Stato agli enti locali in una compartecipazione ai tributi e in autonomia impositiva. Peccato che i tagli del biennio 2010-2011 (regolarmente votati dalla Lega) a valere sul 2011-2014, pari al 40% delle risorse 2010, abbiano di fatto prosciugato il “tesoretto” dei trasferimenti fiscalizzabili, tradendo al di là degli slogan l’essenza del federalismo: lasciare sul territorio una parte delle risorse, superando il monopolio della finanza derivata. «A partire dalla riforma del Titolo V la spesa dello stato è aumentata, al 2011, di 300 miliardi», calcola caustico Angelo Rughetti, direttore generale dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani. Soprattutto: «Si sono spostati 10 miliardi l’anno dai territori verso Roma». È quindi su questa potente ri-centralizzazione che si abbatte l’ulteriore mannaia anti federalista di Mario Monti. Nella versione originale di Roberto Calderoli l’Imu era nella disposizione degli enti locali ma posticipata al 2014. Con il governo tecnico viene anticipata al 2012 cambiando destinazione: il grosso del gettito viene incamerato dallo stato centrale.

Di conseguenza l’aumento della pressione fiscale è deciso un’altra volta per esigenze di bilancio statale, coi sindaci trasformati in esattori per conto di un governo che scarica l’onere delle tasse in periferia.

Questo, in soldoni, è lo stato dell’arte dell’ultimo ventennio. Una stagione forza-leghista che doveva portare il federalismo in terra ma di fatto ri-centralizza scelte e risorse pubbliche; un governo di centrosinistra che vara una riforma schizofrenica del Titolo V della Costituzione, aumentando la legislazione concorrente centro-periferia e quindi i contenziosi; un esecutivo tecnico che nel giro di un anno trasforma l’Imu da strumento fiscale a disposizione dei comuni a patrimoniale di massa espellendo il federalismo dalla propria agenda di governo; e infine una campagna elettorale affidata a slogan (il 75% delle tasse da trattenere sul territorio nuovo mantra della Lega) senza entrare nel merito dell’autonomia, che significa responsabilizzare i territori e aumentare il controllo su come i soldi prelevati ai cittadini vengono spesi e investiti. Significa chiarire chi sono gli attori istituzionali del federalismo, significa chiarire chi fa che cosa, e significa garantire massima trasparenza attraverso bilanci degli enti locali certificati e consolidati, altrimenti i casi Parma in giro per l’Italia si moltiplicheranno. Eppure, di tutto questo, non si parla in campagna elettorale.

Davvero un tramonto mesto per chi coltivava l’ambizione di una Seconda Repubblica finalmente costituente e federalista. A chiusura del cerchio, il riverbero politico è evidente: se il 1993 fu la stagione delle grandi sfide cittadine e dell’orgoglio autonomista, oggi la corsa di sindaci e amministratori locali è quella a trasformarsi in peones parlamentari. Solo tra ottobre e dicembre si sono dimessi amministratori locali come Luigi Cesaro (Napoli), Maria Teresa Armosino (Asti), Roberto Simonetti (Biella), Edmondo Cirielli (Salerno), Fabio Melilli (Rieti), Paolo Filippi (Alessandria), Giuseppe Castiglione (Catania), Antonio Del Corvo (Aquila), Giuseppe Galasso (Avellino) e Roberto Visentin (Siracusa). Alcuni di loro correranno per un seggio romano, altri non ce la faranno. Lo stesso ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, che sfiderà Roberto Maroni e Umberto Ambrosoli per il Pirellone, ha brigato e ottenuto un comodo paracadute al Senato. Conta insomma l’ambizione: si torna alla corsa al centro, svilendo territori, autonomia e il sogno che dalla periferia si potesse costruire una nuova leadership a vocazione nazionale.