A distanza di pochi giorni, Confindustria (con il “Progetto per l’Italia“) e Cgil (con il “Piano del lavoro“) hanno presentato le loro ricette per la crescita. Al di là di visioni spesso opposte, i due documenti presentano alcuni limiti comuni sul piano del metodo. Ecco il confronto.
Entrambi i piani partono dall’idea (o illusione?) che sia possibile far crescere l’Italia con dosi massicce di spesa pubblica e sgravi fiscali. Idea che si scontra con due dubbi. Primo: possibile che nessuno ci abbia pensato prima? Di piani del genere se ne sono visti tanti negli ultimi decenni, non sarebbe più utile un’analisi del perché hanno fallito? Secondo: chi paga? Un paese con il nostro stock di debito e una selva di spese resistenti ai tagli può davvero mobilitare i 180 miliardi di maggiori impieghi proposti da Confindustria in cinque anni o i 50 miliardi in tre anni proposti dalla Cgil?
Naturalmente, i due piani si confrontano con il nodo delle risorse, ma con scarsa credibilità. La Cgil contabilizza 10 miliardi di risparmi dagli incentivi alle imprese, come proposto dal liberista Giavazzi, ma senza menzionare gli ostacoli che quel piano ha incontrato. Propone poi di scorporare gli investimenti dal Patto di stabilità e di lanciare obbligazioni della Cassa Depositi e Prestiti, omettendo che, al di là dei trucchi contabili, qualcuno dovrà pagare per i nuovi investimenti. Siamo sicuri che la loro produttività giustifichi l’accensione di debiti scaricati sul futuro?
Confindustria espone un esercizio molto utile in cui si dettagliano le uscite e le entrate (pag. 13). Tutti i partiti dovrebbero seguire questo metodo (è apprezzabile, per esempio, che la cifra dei risparmi sull’evasione sia uguale a quella dei tagli Irpef per i redditi bassi). Ma molte risorse contabilizzate sono troppo belle per essere vere, come gli oltre 30 miliardi di tagli alla spesa corrente. L’esperienza passata insegna che non dovresti dire gatto finché non l’hai nel sacco.
TROPPO DIRIGISMO NEI DUE PIANI
L’approccio dei due piani è tutto dall’alto e risente di un certo dirigismo. La stagnazione del nostro paese nasce da vent’anni di scelte non fatte in tema di scuola, pubblica amministrazione, giustizia, apertura dei mercati. Secondo alcune stime sul rapporto tra capitale umano e crescita, portare i nostri studenti ai livelli di apprendimento registrati nei test Pisa dagli studenti finlandesi farebbe dell’Italia una delle economie a più alta crescita in Europa. Per carità, affrontare questi nodi significa raccoglierne i frutti fra altri vent’anni. Ma non esistono scorciatoie.
Le nostre parti sociali, invece, ci propongono due scorciatoie dall’alto. Secondo Confindustria, dobbiamo riportare il nostro settore manifatturiero al 20% del Pil. Ma perché mai? Il declino della manifattura è un processo comune ai paesi sviluppati (si veda il primo grafico). Negli ultime decenni, fra le economie OCSE, non esiste nessuna correlazione significativa tra tendenza del peso del settore manifatturiero e crescita economica. Può darsi che la struttura produttiva dell’Italia giustifichi un peso maggiore del manifatturiero. Ma questo lo vedremo dopo che avremo liberalizzato i mercati (a partire dai servizi), riformato l’intervento pubblico e investito in capitale umano. Con un approccio dal basso, fatto di riforme settoriali e incentivi rimessi al posto giusto.
Grafico 1 – Quota dell’industria sul valore aggiunto
La Cgil, da par suo, propone di creare più lavoro con un “concorso straordinario” nel pubblico, nuovi investimenti pubblici per difesa del territorio e ricerca. Non una parola sulla riforma del pubblico impiego e sugli incentivi e la valutazione di chi dovrà gestire così tante risorse. Se non siamo riusciti a valorizzare finora i nostri beni artistici, perché dovremmo riuscirci dopo un concorsone che stabilizza i precari? Il documento è così naif da ammettere che il piano è fattibile perché in “settori pubblici non esposti alla concorrenza internazionale”. Appunto: senza il pungolo della concorrenza, chi garantisce gli incentivi necessari perché le risorse siano usate in modo efficiente? È possibile anche nel pubblico, ma prima si deve spiegare come. E l’esperienza italiana non rende troppo ottimisti.
PREVISIONI LOW COST
Curiosamente, anche chi ha criticato gli economisti per non aver previsto la Grande Recessione del 2008, si affida a modelli macroeconometrici fatti da economisti (in verità un po’ démodé sul piano scientifico) per valorizzare gli effetti mirabolanti delle proprie proposte. Entrambi i piani sono accompagnati da stime sui loro effetti in termini di crescita. Ma queste stime lasciano il tempo che trovano, visto che nessuno potrà mai verificare previsioni su proposte generiche: si potrà sempre dire che è colpa di come sono state implementate. E non servono modelli complessi per stimare che la manna dal cielo ha effetti espansivi sul Pil. Le stime Cgil, inoltre, si basano sull’ipotesi poco credibile che il piano vada a regime già nel 2013 e sono reticenti sulle nuove tasse per finanziarlo. In entrambi i casi, la stabilizzazione (ma non la riduzione!) del rapporto debito/Pil è dovuta ai dividendi della crescita attesa, tutti da verificare.
Certo, c’è un riconoscimento alla necessità di conciliare rigore dei conti e crescita. Ma la Cgil si affretta subito a precisare che «finora gli interventi dettati dalle autorità europee hanno agito solo sul versante del rigore». Ne siamo proprio sicuri? In verità, tutti i paesi europei hanno aumentato di molto il proprio disavanzo e di conseguenza il debito pubblico dopo il 2008 (si veda il secondo grafico). L’Italia ha potuto farlo meno degli altri per via del suo debito pregresso. Non proporsi di ridurlo significa legare le mani anche ai governi futuri che si troveranno a gestire fasi negative del ciclo economico.
Grafico 2 – Andamento del rapporto debito/PIL e del deficit nei paesi dell’area euro (EU17)
MOLTE RICHIESTE, POCHE CONCESSIONI
L’ultimo punto di contatto tra i due piani riguarda la loro natura distributiva. In entrambi i casi, la lista dei benefici per il proprio mondo è lunga, quella delle concessioni meno. È vero: la Confindustria propone una riduzione di circa 6 miliardi all’anno degli aiuti alle imprese, ma si affretta a specificare che degli attuali 31 miliardi di aiuti solo 3 vanno all’industria (e quindi non vanno toccati). Per il resto ci sono proposte da sempre care alle imprese, dalla riduzione dell’IRAP al taglio degli oneri sociali (solo in parte fiscalizzati e quindi con ricadute negative sulle future pensioni dei giovani). Stessa storia per la Cgil.
Eppure, se si rilegge il Piano del lavoro proposto dalla Cgil di Giuseppe Di Vittorio nel 1949-50 (lo si può fare grazie al libro curato da Silvia Berti per Donzelli: “Crisi, rinascita, ricostruzione” con un’introduzione di Fabrizio Barca), cui la convention del sindacato della Camusso intendeva ispirarsi, il tono è diverso. Accanto ai sacrifici richiesti ai ceti abbienti per rilanciare lo sviluppo con un New Deal incentrato su energia, bonifiche ed edilizia popolare, vi si legge una chiara assunzione di responsabilità del sindacato: i lavoratori sono pronti a contribuire con “una modesta percentuale sui salari” o “sotto forma di un lavoro supplementare che si farà per aiutare lo sviluppo economico della Nazione”. Confrontate con la lotta per la sopravvivenza dei lavoratori italiani di allora, le frasi di Di Vittorio fanno un certo effetto.
Per carità: gli interessi organizzati fanno il proprio lavoro e avanzano proposte i cui benefici andranno soprattutto ai propri aderenti. Ma accompagnarle con qualche concessione le renderebbe più credibili. È facile prevedere che fine faranno i due piani in mano alla politica: se ne pescheranno alcune proposte simboliche, salvo depotenziarle per mantenere i conti in equilibrio e non scontentare nessun altro. I corpi intermedi sono un valore aggiunto per il gioco democratico. Ma, combinati con una politica debole e abituata a governare per giustapposizione più che per visione, questi corpi intermedi sono al momento parte del problema, non della soluzione.