Pare che il primo giorno di prova ci fosse spazio in abbondanza. Venticinque leggii, ma solo undici bambini, con archi, clarinetti e tamburi in mano, strimpellavano in uno scantinato di Caracas. Lontani dalla strada, erano gli unici ad aver risposto alla chiamata del maestro José Antonio Abreu.
Oggi i ragazzini de El Sistema non entrano nemmeno stiracchiando in lungo e largo tutto il Paese: 280 scuole, 380 mila alunni, 500 orchestre ed ensemble – la famosa Orchestra sinfonica Simón Bolívar debuttava nel 2007 alla Carnegie Hall -, 2 milioni di laureati in un sistema pedagogico rivoluzionario dove si moltiplicano i prodigi, come i giovani direttori d’orchestra Gustavo Dudamel, Diego Matheuz, Christian Vasquez o il contrabbassista Edicson Ruiz.
Strano. Caracas è un posto dove un bambino viene ucciso per una giacchetta. Dove la gente muore nelle sparatorie, per caso, e la vita non conta granché. Per intenderci: il tasso di omicidi in Venezuela è di tre volte superiore a quello dell’Iraq e quattro volte quello del Messico. In media, a Caracas, ogni giorno vengono uccise 53 persone e il 32 per cento della popolazione urbana vive nei ranchos, dove non entra nemmeno la polizia.
Nel 1975, ma anche trentotto anni dopo, l’idea di José Antonio Abreu è apparsa visionaria, irrazionale. Al tempo l’economista, appassionato di matematica, che decise di seguire la musica, forse incantato dalle note della Quinta sinfonia di Tchaikovsky – la sua preferita – un giorno ebbe un sogno. Come Martin Luther King: «Inondare di musica il Venezuela».
Da allora il 73enne ex economista non si è mai arreso: ha creato dal nulla El Sistema, un metodo educativo che insegna la musica ai bambini dei barrios, strappandoli alla violenza, al crimine, alla povertà. E regalando loro una nuova vita: lo strumento. Tocar y luchar, cioè suonare e lottare, è appunto il motto che si spande nei corridoi delle scuole. Perché suonare, a Caracas, non solo ti cambia, ma ti salva la vita. Molti non sono solo bravi musicisti, ma oggi avvocati, insegnanti, medici e funzionari pubblici.
Abreu sa bene che le statistiche sono ancora assai dure. Ma senza il suo metodo le cose – né è convinto – sarebbero andate peggio: «Non è solo questione di musica. Qui si insegna la solidarietà, l’armonia, l’ordine, la bellezza, il rispetto. E prima di tutto l’umiltà».
Per realizzare l’impensabile Abreu mescola il pragmatismo alla diplomazia con l’ambizione di chiedere l’impossibile, la sensibilità artistica al compromesso, la strategia – otto governi lo hanno appoggiato nel suo lavoro – alla determinazione. Il risultato è un personaggio, conosciuto in tutto il mondo, come un uomo che sta sopra il bene e il male, ammirato da stelle della musica odierna come Simon Rattle, Barenboim, Plácido Domingo o Claudio Abbado, cercato da istituzioni come le Nazioni Unite e acclamato con premi e riconoscimenti internazionali.
Consapevole di dirigere una sorta di esercito della salvezza, l’anziano maestro non si ferma mai un momento. Il suo sistema di orchestre e cori giovanili è entrato di diritto nella storia del Venezuela, e si estende in America Latina con progetti simili nelle favelas di Rio de Janeiro, negli angoli più remoti dell’Argentina o nei quartieri più poveri della Colombia. Poi ancora negli Stati Uniti, in Asia, in Europa, dove molti Paesi – anche l’Italia – sta cercando di copiare quel metodo prodigioso per salvare il futuro della musica classica.
Gran parte del successo è dovuto all’abilità di Abreu nei rapporti coi governi venezuelani, tra cui quello di Hugo Chávez, che ha messo El Sistema sotto la sua ala e lo cita di volta in volta come un esempio della sua «rivoluzione bolivariana». Alcuni critici del Comandante hanno trovato da ridire di questa eccessiva intimità, ma Abreu ha sempre smentito: «Non ho mai subito alcuna pressione politica».
D’altronde El Sistema è stato sostenuto fin dagli esordi da sette governi provenienti da tutto lo spettro politico, per un valore di circa il 90 per cento del suo bilancio, 40 milioni di euro l’anno. E i fondi sono sempre stati erogati dai servizi sociali, più che da quelli culturali. A conferma che l’opera è un antidoto alla violenza, una sfida ai problemi del Paese. Nel giugno del 2007 perfino la banca per lo Sviluppo Inter-americano ha investito 150 milioni di dollari nella Fondazione, per la costruzione e l’espansione di ulteriori nuclei regionali de El Sistema. Le stime dicono che entro il 2015 il numero di bambini impegnati nei programmi pedagogici potrebbe raggiungere il mezzo milione. Cifre da capogiro, ma in Venezuela il 33 per cento della popolazione ha meno di 14 anni.
Se a Caracas però l’educazione musicale è ormai un diritto costituzionale, lo si deve soprattutto agli insegnanti de El Sistema. Sono loro a girare i quartieri e bussare alle porte. A parlare coi genitori, a volta per mesi, a visitare i ranchos per far capire l’impegno da loro richiesto. Si comincia coi bambini di due o tre anni, si dà loro uno strumento in mano. Poi, quando l’allievo entra a far parte di un’orchestra, riceve uno stipendio e la musica conquista il suo valore reale anche nei conti di casa.
Una ragione per cui El Sistema funziona così bene è che il suo meccanismo è familiare: non appena un ragazzino diventa un musicista discreto comincia a insegnare alle giovani generazioni. Con gli stessi metodi, la stessa energia, la stessa passione. «Viviamo le nostre vite attraverso le opere. Quando suoniamo la Sinfonia n. 5 di Beethoven, per noi è la cosa più importante al mondo», ha ripetuto più volte Gustavo Dudamel.
Ma ne El Sistema non si studia solo Beethoven o Mahler. C’è il ritmo che esplode. Perché in fondo la musica classica affonda parte delle sue radici in quella popolare. Bach studiò le danze popolari del suo paese per le suites per violoncello. E chi è Gershwin se non un musicista pop? El Sistema insegna questo. Ha strappato i giovani alle bande criminali, li ha riscattati da una situazione di miseria materiale e spirituale e ha insegnato loro a vivere. Ma sempre a ritmo di Mambo.