Nazionalizzazioni e fabbriche chiuse, è l’Egitto due anni dopo la rivolta

Nazionalizzazioni e fabbriche chiuse, è l’Egitto due anni dopo la rivolta

IL CAIRO – È l’ennesima volta che Piazza Tahrir è occupata. La folla è difficilmente riconducibile a una parte o all’altra delle diverse forze che animano la transizione alla democrazia in Egitto. Oggi, poi, cade il secondo anniversario della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak, l’11 febbraio 2011. E per domani è atteso anche il sofferto verdetto della magistratura egiziana sugli scontri che un anno fa portarono alla morte di decine di tifosi a Port Said in occasione di una partita di calcio tra la squadra locale, al-Masry, e al-Ahly del Cairo. Un momento complesso.

Molti temono che il verdetto, dal quale ci si aspetta la condanna a morte per alcuni degli imputati, diventi occasione di nuovi scontri e proteste, soprattutto da parte di quei gruppi di ultras che già nei mesi scorsi hanno dimostrato di essere una delle anime più violente della rivoluzione. Già ieri sono iniziate le proteste, anche violente, proseguite per tutta la notte nelle vicinanze di piazza Tahrir. Le bande di ultras, vestite di nero con passamontagna, si sono confuse con le diverse proteste organizzate dalle opposizioni contro il governo. Sono cinque i diversi cortei che oggi hanno raggiunto il centro di una città che ha ormai interiorizzato le proteste e le violenze periodiche, senza mai esservisi abituata fino in fondo.

Nell’anniversario della rivoluzione non si può parlare di una semplice ricorrenza: è vissuta da più parti come un momento ulteriore, attraverso cui conseguire quegli obiettivi della rivoluzione ancora inevasi e sempre più indeterminati. Le opposizioni al governo dei Fratelli musulmani sembrano aver ritrovato vigore, dopo l’approvazione, sofferta e contrastata nello scorso dicembre della nuova costituzione egiziana, attraverso un referendum dalla bassissima affluenza elettorale (32,9%) che ha poi finito per favorire i Fratelli. Di fronte a una loro crescente occupazione dello Stato, vale la pena registrare e sottolineare che, nei primi 200 giorni di governo, il reato di “insulto al presidente della Repubblica” (tipico di un regime autoritario) è stato invocato per ben 24 volte a difesa del nuovo presidente egiziano contro i 14 casi che complessivamente si contano dalla nascita della Repubblica egiziana. Nella piazza per antonomasia, quella di Tahrir, l’impressione è che a prevalere sia un misto di rabbia e disillusione verso un processo di cambiamento che ha conseguito alcune svolte radicali e storiche, ma ha nello stesso tempo mancato di rispondere a tante richieste della gente comune.

Piazza Tahir oggi

Il paese appare sempre più ostaggio di una situazione di conflittualità permanente, che porta all’incapacità di produrre politiche efficaci e di dare risposte concrete di fronte a un quadro socio-economico sempre più grave. La Lira egiziana continua a perdere terreno nel cambio con il dollaro e l’euro soprattutto da quando la banca centrale egiziana ha iniziato a stampare banconote con crescente disinvoltura rispetto ai vincoli che imporrebbe la consistenza della riversa monetaria. Il rendimento dei titoli di Stato egiziani hanno ormai abbondantemente sorpassato il tasso di interesse del dieci per cento, nell’affannoso tentativo di rastrellare sempre maggiori capitali per finanziare un debito pubblico in costante crescita. Il governo egiziano ha dovuto ricorrere a un provvidenziale prestito da parte del Qatar per rifinanziare e dilazionare un prestito del Fmi che non sarebbe stato altrimenti in grado di ripagare. L’economia continua ad avere una performance molto debole. E mentre il Qatar acquista “azioni” della rivoluzione a prezzo di saldo, in una logica di influenza politica ed economica neppure troppo celata, le autorità governative lanciano messaggi rassicuranti (e un po’ sognanti) sulla tenuta di uno Stato che non può fallire «perché solo le industrie falliscono e l’Egitto non è un’industria».

La crescita dei prezzi al consumo, che con le famose rivolte del pane a metà degli anni Duemila aveva posto le premesse della Rivoluzione del 2011, non si è affatto fermata, alimentando insieme alla povertà il dissenso popolare. Il presidente Mohammed Morsi, eletto lo scorso giugno come candidato dei Fratelli musulmani, ha dimostrato per il momento di non contestare, né di volersi sottrarre alle regole dell’economia globale e alle sue logiche neoliberiste, limitandosi nei fatti a pararne le conseguenze più negative sulla gente comune attraverso il varo di una serie di politiche assistenziali che però avranno difficoltà nel contrastare in modo duraturo l’aumento della povertà nel paese.

Non è un caso che le recenti azioni legali conclusasi con la rinazionalizzazione di alcune imprese pubbliche, privatizzate negli ultimi anni dell’era Mubarak a tutto vantaggio di clienti corrotti del passato regime siano state vittoriosamente portate avanti dai sindacati, piuttosto che dai Fratelli musulmani. Intanto, scioperi e disservizi continuano a singhiozzo con conseguenze anche gravi sulla manutenzione di strutture e impianti. Risultato: una serie impressionate di incidenti (e morti) nel settore ferroviario. Sono ancora moltissime le fabbriche che rimangono chiuse, mentre uno dei principali settori generatori di reddito, il turismo, continua a risentire degli effetti dell’interezza e dei timori generati da questa nei possibili visitatori.

A due anni dalla Rivoluzione e a poco più di sei mesi dalla vittoria di Morsi la domanda rimane la stessa: i Fratelli musulmani che per anni hanno coltivato nella clandestinità l’opposizione al regime di Mubarak, una volta usciti allo scoperto per partecipare alla rivoluzione, riusciranno a trasformarsi in un vero e proprio partito politico? Al momento quelle che erano le logiche religioso-assistenziali dei Fratelli sembrano essere transitate direttamente nell’agenda del Partito della giustizia e della libertà e di conseguenza in quella del governo, mentre riforme annunciate (come quella di un tetto minimo e massimo per i salari) restano inevase.

Per un governo abituato a governare a colpi di maggioranza il rischio è quello di perdere proprio quella maggioranza, alienandosi il consenso di quella parte della classe media e laica che aveva creduto nella capacità di Morsi e dei Fratelli di operare riforme effettive al di là della maggiore o minore prossimità all’Islam dei singoli. 

*africanista, Università di Pavia