Francesco Longo è professore di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche presso l’Istituto di Pubblica Amministrazione e Sanità (Ipas) dell’Università Bocconi. Già direttore del Cergas (Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale dell’Università Bocconi), ha pubblicato, tra l’altro, I costi della vecchiaia (con Tanzi E.), Egea 2010; La sanità futura. Come cambieranno gli utenti, le istituzioni, i servizi e le tecnologie (con Del Vecchio M., Lega F.), Università Bocconi 2010.
Professor Longo, di fronte a una popolazione che invecchia e a un quadro epidemiologico che vede un aumento delle malattie croniche, tre regioni, Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, da qualche anno stanno sperimentando dei nuovi modelli di cura. Può raccontare?
La vera novità nei sistemi sanitari è il fatto che il 35-40% della popolazione ha una patologia cronica. Ovviamente questa incidenza cresce con il crescere dell’età, ma già dopo i 45 anni una quota importante di persone ha una patologia cronica che può durare tranquillamente venti, trenta, quarant’anni: uno si scopre iperteso a quarant’anni e si porta dietro l’ipertensione tutta la vita. Le stime ci dicono che i malati cronici consumano il 70% delle risorse del sistema sanitario. E qui veniamo subito al punto: affrontare un malato cronico con un posto letto ospedaliero è un po’ come andare al mare d’estate con la giacca a vento e gli sci, nel senso che allocare le risorse della sanità in posti letto davanti a patologie croniche è veramente sbagliare lo strumento rispetto all’obiettivo.
Di fronte a un quadro epidemiologico di questo tipo, i sistemi sanitari sono dunque chiamati a ristrutturarsi profondamente.
La patologia cronica può essere curata bene a tre condizioni. La prima è che venga intercettata per tempo. Se, per esempio, un inizio di diabete viene curato da subito, con l’alimentazione e lo stile di vita, io posso vivere tranquillamente con questa piccola patologia senza altre complicazioni. Se invece la patologia non viene intercettata per tempo, si complica e a quel punto c’è bisogno dell’ospedale.
La seconda condizione, la più difficile da ottenere, è la “compliance”, cioè l’aderenza del paziente alla terapia. Cioè la qualità della cura non dipende dalla qualità prescrittiva ma dalla convinzione con cui il paziente accetta la terapia. Nel caso del diabetico, come dicevo, serve un certo tipo di alimentazione, fare sport, prendere regolarmente i farmaci. È evidente che tutto questo non si ottiene con i mezzi tradizionali della sanità e soprattutto non si ottiene con i posti letto ospedalieri.
Il terzo punto è che la patologia cronica interroga un’interdipendenza organizzativa, ovvero la qualità della cura dipende da quanto sono ben organizzati i meccanismi di coordinamento tra i diversi attori sanitari che agiscono su quel paziente, quindi il medico di medicina generale, l’infermiera, lo specialista, il laboratorio diagnostico che intervengono con frequenze profondamente diverse. Già da queste poche osservazioni si capisce che la geografia dei servizi come siamo abituati a conoscerla è sbagliata. Pertanto il sindaco che difende il suo ospedaletto fa male alla sua comunità perché difende una struttura di cura che è incoerente ai bisogni della popolazione. Lo fa perché nell’immaginario l’ospedale è un presidio che tutela la popolazione locale, ma in realtà non è assolutamente più così. Un piccolo ospedale di periferia oggi è un posto potenzialmente dannoso perché non ha le casistiche necessarie per le prestazioni specialistiche (cioè i chirurghi non operano abbastanza) e quindi sulle alte specialità è addirittura pericoloso. Invece per le patologie leggere, proprio per le cose che dicevo, l’ospedale non serve.
Quindi, sostanzialmente, il nostro paese è davanti a un bivio importante: o lasciamo la geografia dei servizi com’è e facciamo dei grandi tagli lineari. In questo caso risolviamo il problema economico ma non quello dell’incongruenza dei servizi rispetto ai bisogni delle persone. Oppure ripensiamo radicalmente il modello.
Come si trasforma il sistema attuale per renderlo più adeguato ai bisogni dei cittadini?
Io vedo fondamentalmente quattro mosse. La prima è un taglio secco dei posti letto che può avvenire prevalentemente chiudendo tutti i piccoli ospedali. Ci deve essere l’ospedale ogni 100.000 abitanti e attorno non ci devono essere altri ospedali.
La seconda mossa è trasformare i posti letto che abbiamo tagliato in poliambulatori specialistici, che lavorano dal lunedì al venerdì, dove si fa solo specialistica ambulatoriale. Teniamo presente che l’accesso ambulatoriale è oggi l’elemento più doloroso del sistema sanitario nazionale: solo la metà delle visite specialistiche sono fatte in regime di sistema pubblico, le altre sono a pagamento.
La terza mossa è quella di aumentare i posti letto in strutture protette per anziani evitando che gli anziani finiscano in reparti di medicina e possano invece accedere a strutture più adeguate che, avendo un taglio assistenziale, sono anche più umane. Quarta mossa, la più complicata, sviluppare modelli che tecnicamente si chiamano di “disease management” della cronicità, ovvero modelli di presa in carico permanente del paziente cronico che raggiungano gli obiettivi di cui parlavamo prima (tempestività, compliance e integrazione tra i professionisti).
Teniamo presente che la sfida di questa rivoluzione non sta tanto nella complessità tecnica quanto nella complessità cognitiva. Cioè oggi la difficoltà è spiegare alla popolazione che chiudere l’ospedale e aprire degli spazi poliambulatoriali è un vantaggio e non uno svantaggio. Qui è la mappa cognitiva a essere indietro e cambiare la cultura delle persone è sempre difficile.
La buona politica italiana ha allora il compito di accompagnare questo cambio culturale affinché si accetti quello che in fondo è interesse della popolazione medesima.
Veniamo allora ai modelli di “disease management”. Come funzionano nel concreto?
Il “disease management” è una rivoluzione sotto tanti aspetti.
Intanto è uno schema di medicina d’iniziativa anziché di medicina d’attesa. Vuol dire che il sistema sanitario nazionale, analizzando i dati amministrativi disponibili sui consumi sanitari, individua a tavolino le persone potenzialmente portatrici di alcuni rischi sanitari. Per dire, se una persona ha più di cinquant’anni, è sovrappeso ed è andata tre volte al pronto soccorso nell’ultimo anno, tendenzialmente ha una patologia cronica che ogni tanto morde. In uno schema di medicina d’iniziativa questa persona viene chiamata (a differenza della medicina d’attesa in cui il sistema sta passivo e aspetta che il paziente venga), si fa la diagnosi, dopodiché viene “arruolata” in un percorso diagnostico, terapeutico e assistenziale. Ovviamente se la persona è d’accordo. Questo garantisce il pezzo dell’intervento precoce.
Poi c’è il secondo problema che è quello della compliance alla terapia. In questo caso ciò che va fatto è programmare con grande precisione i pacchetti di prestazioni che si associano alle singole malattie. Se io ho uno scompenso cardiaco, so di dover essere visto da uno specialista una volta ogni sei mesi, di dover fare alcuni accertamenti diagnostici e vedere il mio medico una volta al mese. Ecco, nella medicina d’iniziativa il sistema in automatico mi prenota il pacchetto di prestazioni per tutto l’anno; non solo: uno-due giorni prima della prestazione mi viene mandato un sms, una mail o una telefonata che mi ricorda l’appuntamento. Se per caso non mi presento, non vado a ritirare il farmaco, non vado alla visita, il sistema registra e cerca di richiamarmi: “Scusi, lei doveva andare a fare l’esame del sangue, perché non è andato? Glielo prenoto nuovamente”.
Infine c’è la questione del raccordo tra professionisti. Intanto serve un sistema informativo condiviso dai professionisti per cui ognuno accede alle informazioni che ha raccolto il collega. Il medico di medicina generale vedrà quindi sul proprio computer la diagnosi e le terapie prescritte dallo specialista, così come i referti clinici del laboratorio di analisi.
A quel punto, se dagli esami risulta che il diabetico ha la glicemia fuori controllo, non solo il laboratorio manda il dato al medico, ma il sistema dovrebbe mandare un allarme al responsabile (il cosiddetto “case manager”) segnalando appunto che probabilmente non c’è stata compliance del paziente al farmaco o agli stili di vita, oppure che la terapia nuova non va bene.
Ora tutto questo è facile a dirsi, ma per mettere in piedi logiche e strumenti di questo tipo ci vorranno anni. Diciamo che l’orizzonte di lavoro per mettere a regime un sistema di questo tipo è di cinque-dieci anni. E non è detto che si riesca.
Per entrare nello specifico delle tre regioni…
Allora, in Lombardia è partito il Creg (Chronic Related Group), ma è un piccolo germoglio: è una sperimentazione in cinque Asl su 14 e hanno aderito il 15% dei medici.
Gli emiliano-romagnoli hanno un modello che si basa sulla progressiva trasformazione dei Nuclei di cure primarie, queste aggregazioni di medici di medicina generale in cui lavorano anche le infermiere, in Case della salute. La Casa della Salute sostanzialmente è un luogo fisico dove vanno a lavorare insieme cinque-otto medici di medicina generale, una segretaria, un’infermiera e degli specialisti ambulatoriali, come il cardiologo, il dietologo, il pneumologo. Ovvio che i medici di base ci vanno tutti i giorni, mentre il pneumologo ci va una volta la settimana e vede solo i casi che si sono aggravati o quelli che hanno avuto degli esiti non sperati.
Da questo punto di vista la regione Emilia-Romagna è molto avanti perché ha lavorato sullo sviluppo culturale e scientifico dei medici già da tanti anni, dieci-quindici anni.
Quindi la diagnostica resta tutta fuori dall’ospedale…
La diagnostica più semplice potrebbe entrare nella Casa della salute, come un piccolo laboratorio analisi di sangue e urine. Un altro pezzo diagnostico di medio livello, che è sufficiente per qualsiasi patologia cronica, dovrebbe entrare nei grossi poliambulatori che sostituiranno i piccoli ospedali. Nell’ospedale dovrebbe rimanere solo l’alta diagnostica iperspecialistica per patologie acute. Queste sono traiettorie di riforma su cui si sta ragionando.
Tornando ai modelli, la Toscana invece punta sul mutuo aiuto…
Quello toscano si chiama “Chronic care model” (modello di cura delle patologie croniche, ndr), è un modello partorito negli Stati Uniti. È simile agli altri: si basa sull’aggregazione dei medici di medicina generale che prendono in carico in maniera stabile le patologie croniche coordinandosi con gli specialisti. Come di più, c’è che mette un’enfasi maggiore sulle competenze residue del paziente e sulle risorse della sua famiglia e cerca quindi di giocare il più possibile sull’autocura. Si ritiene che l’autocura, così come la nascita di gruppi di mutuo aiuto tra persone che hanno la stessa patologia, siano efficaci nel garantire l’adesione del paziente alla terapia. Succede allora che un gruppo di anziani col diabete si incontra e discute sugli stili di vita e alimentari, sull’assunzione di farmaci, non per modificarsi la terapia, ma per confrontarsi e parlarne. Questo ha un forte effetto di contagio. È un modello sperimentato al momento in tutte le Asl e che ha un indice di adesione di circa il 30% dei medici. Ovviamente non hanno reclutato tutti i pazienti cronici. È simile agli altri per gli aspetti tecnici, dopodiché mette un’enfasi maggiore sul potenziamento delle risorse del cittadino e della sua famiglia; la rete sociale è ritenuta la risorsa più importante per ottenere la compliance che è l’elemento decisivo per curare bene le patologie croniche.
Nei modelli di “disease management” anche le infermiere assumono un ruolo un po’ inedito…
Assumono un ruolo centrale. I volumi di persone croniche sono tali che noi non possiamo farcela con i medici. È anche una questione di appropriatezza. Affidare il follow-up del cronico al medico equivale a sparare a una mosca col cannone. Si buttano via risorse pubbliche. Se una volta al mese un malato cronico deve farsi controllare la pressione o discutere lo stile alimentare, questo è un lavoro che è giusto facciano le infermiere e per diversi motivi. Il più importante è che sono professioniste, hanno la competenza giusta. Ricordiamoci che le infermiere oggi sono tutte laureate, sono persone che hanno fatto minimo tre anni di università e le capo infermiere spesso hanno fatto cinque anni; il medico ne studia sei, non è che ci sia tutta questa differenza negli anni di preparazione. C’è una grossa differenza nel focus della preparazione. L’infermiera è più forte a livello assistenziale, a guardare in maniera olistica al paziente: come si sente, come sta emotivamente, come espleta alcune funzioni primarie. Il medico specialista tutta questa dimensione non ce l’ha. L’ortopedico guarda le ossa, punto.
Questo per dire che oramai il livello di preparazione delle infermiere è molto alto e pertanto dobbiamo assolutamente valorizzarle. Sarebbe uno spreco averle fatte laureare tutte e poi usarle come quarant’anni, fa quando non lo erano.
C’è un’altra cosa da dire. In letteratura è stato dimostrato che le infermiere sono decisamente più efficaci nel lavoro di presa in carico e di convincimento del paziente. Il medico è più bravo a impostare una terapia ma è meno affascinato dal tema della relazione. L’infermiera invece ha un imprinting culturale-organizzativo per cui ciò che le interessa di più è la relazione col paziente. Forse lo stesso paziente la sente anche più vicina. Poi c’è un problema di costi, cioè un medico costa come tre infermiere, quindi con gli stessi soldi possiamo triplicare la forza d’azione.
Diceva che questa rivoluzione alla fine va anche incontro all’allungamento della carriera lavorativa introdotto dalla riforma previdenziale.
È così. Il combinato disposto di tutte queste mosse, cioè meno posti letto ospedalieri, crescita di strutture protette che curano anziani più gravi, medici di medicina generale che affrontano patologie che non hanno mai affrontato, infermiere investite di responsabilità assistenziali nuove, di fatto garantisce a quasi tutti gli attori un upgrading delle proprie competenze. Cioè viene chiesto a tutti di occuparsi di casi più gravi, tutti fanno uno scatto in avanti. Io ci vedo un’occasione di rilancio della propria professionalità e di ripensamento che può essere molto utile in un sistema che di fatto ci chiede di lavorare dieci anni in più.
Agli operatori sanitari coinvolti viene offerta la possibilità di spezzare la routine e di rinascere professionalmente a livello più alto, con maggiore competenza. Questo può rivelarsi un meccanismo che previene il burnout e che può far nascere nuovi entusiasmi. Certo, per chi negli ultimi anni pensava di poter tirare i remi in barca e accontentarsi della routine è una tragedia.
Ricordiamoci che oramai il dipendente medio dell’Ssn ha più di cinquant’anni perché questo blocco feroce delle assunzioni negli anni ha alzato significativamente l’età media. Introdurre cambiamenti con persone che hanno più di cinquant’anni è più difficile che farlo con dei trentenni, quindi è un’operazione che va condotta con la massima attenzione.
Come stanno rispondendo gli operatori coinvolti dalla sperimentazione?
Come sempre un terzo coglie da solo l’aspetto innovativo, ne è affascinato e si fa promotore del cambiamento, un terzo è contro e si oppone, e un terzo è quella massa in mezzo che sta a vedere e si muove a seconda di quale dei due prende il sopravvento culturale; è quello che farà poi i due terzi.
Quella che ho tracciato nel complesso è una rivoluzione necessaria, ma non darei per scontato il fatto che si imponga. Può darsi che il paese culturalmente non ce la faccia e che il modello rimanga invariato: si faranno tagli lineari e i servizi continueranno a essere incoerenti con i bisogni della popolazione.
Voglio dire che qui non c’è nessun automatismo che ci garantisce che ci salviamo come paese. O c’è uno scatto di reni collettivo e capiamo che dobbiamo cambiare profondamente le cose e allora il paese allinea la scuola, la sanità, la ricerca, i trasporti alle esigenze sociali e si salva, o non fa questo scatto e la crisi in cui siamo entrati non farà che peggiorare.
Credo che la cosa peggiore che possiamo fare è sperare che passi la nottata e che torni tutto come prima perché in quel caso non avremmo scampo.
Qual è stata invece la risposta dei pazienti coinvolti?
Il paziente medio è super contento! Anche se non è così scontato. Non è facile convincere l’anziano che è meglio andare nel poliambulatorio perché nella visione collettiva l’ospedale è meglio, cosa che non è assolutamente vera per le patologie croniche. Ci sono delle resistenze più legate alla narrativa e al simbolico. In realtà se uno mi prenota tutto il pacchetto e non devo più girare e posso essere seguito sempre dallo stesso specialista ecc., beh, è un modello che non è difficile da “vendere” al paziente.
I modelli di presa in carico dei cronici necessitano anche di una certa innovazione tecnologica…
Tutti questi modelli richiedono la capacità di mettere a sistema sistemi informativi diffusi, per quanto non particolarmente sofisticati e complessi. Qui il problema non è la complessità ma la capacità di far sì che funzioni la rete informativa tra Asl, specialisti e medici di base e che ognuno guardi le informazioni cliniche sul proprio paziente. In Emilia-Romagna c’è il progetto Sole, in Lombardia c’è il Siss… Sicuramente si può limare, aggiustare, perfezionare, ma lo strumento c’è già, ora la sfida è di fare in modo che tutti gli operatori lo usino. Anche qui, alla fine la vera difficoltà sta nel modificare le mappe cognitive più che nell’infrastrutturare. Bisogna cogliere l’occasione e trasformare la crisi in un volano, in qualcosa che ci faccia venire una voglia collettiva di cambiare, di innovare, di modificare i nostri comportamenti.
Il pronto soccorso, un tasto dolente della sanità, come cambia in questa prospettiva?
Se la cronicità fosse intercettata per tempo e stabilizzata, probabilmente metà delle persone che arrivano in pronto soccorso non ci andrebbero. Oggi circa il 70% di accessi al pronto soccorso in Italia sono codici bianchi impropri. Quindi non è che dobbiamo raddoppiare la capacità del pronto soccorso aumentandone l’inappropriatezza. Dobbiamo fare esattamente il contrario, cioè far sì che quel 70% venga intercettato prima e comunque abbia un luogo dove andare e a cui fare riferimento. A quel punto i nostri pronto soccorso, dovendo trattare il 30% delle persone, sono più che abbondanti e diventerebbero finalmente dei luoghi straordinariamente efficaci.
Non trascurerei l’effetto psicologico della sensazione di essere presi in carico in un percorso strutturato in cui una volta ogni tot giorni vedo un’infermiera che guarda i miei dati e mi rassicura. In fondo è proprio quando non ti senti seguito che ti agiti e vai al pronto soccorso. Questo è uno dei motivi per cui bisogna cambiare modello. Anche perché poi se un ultraottantenne pluriproblematico arriva al pronto soccorso la reazione è di ricoverarlo anche se palesemente non c’è nulla da fare. E i costi lievitano.
Nel modello lombardo ai medici viene chiesta anche una gestione economica del servizio.
Nella sperimentazione dei Creg, che è ancora su piccolissimi numeri, l’ipotesi è che di fatto i medici di medicina generale si riuniscano in una cooperativa che lavora come un soggetto privato accreditato, quindi si va verso una prospettiva di esternalizzazione delle cure primarie. Il gruppo dei medici ha un budget virtuale per i propri malati cronici con cui virtualmente paga le singole prestazioni consumate, i farmaci, la diagnostica, la specialistica. Se ottiene buoni esiti (quindi i cittadini sono compensati) e dovesse avanzare qualcosa, può reinvestirlo nell’ambulatorio e in parte tenerlo come incentivo per sé.
È una prospettiva opposta a quella del sistema emiliano romagnolo che invece reinternalizza le cure primarie: medici, infermieri e specialisti che lavorano nella Casa della salute sono tutti dipendenti pubblici. Nel modello lombardo invece il medico ha la sua infermiera privata che viene rimborsata dal sistema pubblico.
Io personalmente non sono neanche così dogmatico: ognuno dei due è coerente alla propria storia e tradizione.
C’è da dire che quello emiliano è sicuramente più avanti quanto a diffusione perché tutti i medici di medicina generale sono dentro al Nucleo di cura primaria (anche perché sono stati obbligati). In Lombardia è una cosa volontaria e verosimilmente per pochi. Per certi versi il modello lombardo è più sofisticato nel disegno però è ancora una sperimentazione limitatissima. Il modello dell’evoluzione emiliano romagnolo è più robusto perché molto diffuso: tutti hanno già fatto un pezzo di strada. In Lombardia sono in pochissimi, però quei pochi forse sono andati un po’ più avanti.
Diceva che a Ravenna hanno fatto un esperimento interessante sull’“arruolamento” dei pazienti cronici.
Ravenna è uno degli esempi migliori nell’uso dei database amministrativi relativi a quanto ha consumato ogni singolo cittadino in sanità negli ultimi anni. Da quei consumi infatti si ricostruiscono le patologie e si scopre l’indice di fragilità del cittadino. Questa è la base per fare “disease management” e medicina d’iniziativa perché a quel punto sistematicamente chiamo i pazienti più fragili per reclutarli nei percorsi terapeutici.
Per gli operatori è una rivoluzione passare dalla medicina d’attesa alla medicina d’iniziativa. Se fino a ieri facevo il medico stando seduto ad aspettare, oggi avrò una lista di persone da contattare. Considerando che un medico mediamente ha 1200 iscritti e i cronici sono il 38%, in media mi troverò con un elenco di 500 persone da chiamare e reclutare. È facile immaginare che la mia prima reazione non sarà proprio di gioia. Certo, può essere un lavoro appassionante, ma va proposto con grazia e gradualmente, affinché si produca accettazione e non resistenza al cambiamento.
Comunque a Ravenna quello che si è scoperto, una dinamica nota nei sistemi occidentali, è che quelli che oggi sono reclutati sono quelli a fragilità media, non a fragilità alta. I più gravi restano fuori perché sono talmente gravi che non sono in grado di trasformare il bisogno in domanda.
Nello schema della medicina d’attesa sono quelli che non si presentano. La vedova anziana che vive da sola in un paesino di montagna non va a chiedere servizi. Ma questa è un’evidenza che tutti i sistemi occidentali di welfare conoscono: tradizionalmente si intercetta il bisogno medio e medio-alto, non l’estremo. Non c’è tutto quell’effetto redistributivo che vorremmo. Gli schemi di medicina d’iniziativa cercano proprio di colmare un pezzo di questo problema. Comunque la prima volta per l’operatore è uno shock perché significa quantomeno reclutare della gente in più, inoltre è un lavoro difficilissimo perché hai a che fare con gente che non è abituata, che non vuole venire, che è molto grave è che fino a ieri non hai trattato.
I servizi sociali vengono coinvolti in questo percorso?
I servizi sociali hanno una cultura di attesa ancora più radicata e una scarsa propensione a maneggiare numeri. Stanno più sulla relazione, che si costruisce se qualcuno arriva. È difficile che i servizi sociali vadano a cercare.
La sanità invece ha una potenza di fuoco perché sa chi bisognerebbe cercare. Uno che sta male si è presentato almeno una volta al pronto soccorso, oppure è stato ricoverato; il dato sanitario c’è sempre. Mentre non vale la stessa regola per i servizi sociali: chi sta peggio non si presenta. Il tossicodipendente all’ultimo stadio o il barbone non va certo ai servizi sociali del Comune; il fatto che non sappiamo chiedere aiuto è un pezzo del loro problema.
Dei tre modelli menzionati, ce n’è uno che si sta rivelando migliore?
Prevalgono gli aspetti comuni. Tutti e tre vogliono reclutare per tempo i pazienti, lavorare sulla compliance, combinare tra di loro le varie professioni. Le differenze sono anche un po’ di narrativa perché poi comunque ci sono dei “fabbisogni” politico-istituzionali. Se proprio vogliamo cercare delle differenze, il modello lombardo ragiona molto nella logica dell’incentivo economico all’imprenditorialità. Il modello emiliano ha un forte richiamo alla competenza tecnica del dipendente pubblico. Nel modello toscano è più forte il richiamo al senso della comunità, ai valori e al self-empowerment dell’individuo. Ognuno è coerente al proprio imprinting. Io dico sempre che la cosa migliore sarebbe prendere il meglio di tutti e tre: l’associazionismo dei medici emiliani, la forza delle Asl emiliane, con la metrica dei Creg lombardi e il senso di appartenenza e di comunità dei toscani. C’è anche da imparare uno dall’altro. Comunque qui il problema oggi non è di perfezionare i modelli, siamo ancora indietro…
Diceva, in controtendenza con quanto sentiamo quotidianamente, che il nostro è un sistema che spende poco…
Il sistema sanitario italiano spende circa il 7% del Pil. Francesi e tedeschi viaggiano oltre il 9%. Appare tanto a causa dell’enorme debito pubblico che abbiamo, ma in realtà siamo sotto la media europea e abbiamo dei buoni risultati in termini di efficacia e soprattutto di equità. Qualsiasi cittadino è iscritto al sistema e vi accede liberamente. Poi, è vero, pezzi di iniquità ci sono: le persone più colte sanno dove andare e poi c’è chi può pagare senza dover sottostare ai tempi delle liste d’attesa, ma comunque siamo messi meglio degli altri.
Non solo, l’Italia, rispetto ad altri paesi europei, è più avanti in questa traiettoria di ripensamento dei modelli. Abbiamo già tagliato il 30% dei posti letto negli ultimi dieci anni, cosa che tedeschi e francesi hanno fatto con molta meno intensità.
Oggi la spesa sanitaria com’è articolata? Lei segnalava come una certa spesa privata non sia sempre virtuosa…
Oggi la spesa sanitaria vale 106 miliardi all’anno. Sono circa 1800 euro per abitante a cui si aggiungono 30-36 miliardi (a seconda delle stime) di spesa privata da parte dei cittadini, quindi altri 600 euro in cui ci sta l’odontoiatria (che è tutta privata e vale 200 euro l’anno per abitante), un po’ di farmaci e molta specialistica ambulatoriale. La metà delle visite specialistiche ambulatoriali oggi sono, come si dice, “out of pocket” (cioè di tasca propria), anche a causa dell’innalzamento dei ticket, cioè alla fine se il ticket costa 50 euro e la visita privata 80 euro… Tanto più che uno dei difetti del Ssn è che non posso scegliere l’operatore quando prenoto, mentre se pago posso farlo.
Ecco, i modelli di “disease management” dovrebbero invece portare questa novità che tendenzialmente l’operatore è sempre lo stesso, cioè mi vede sempre quel medico di medicina generale, quell’infermiera e quello specialista, così si costruisce una relazione più calda con persone che sono meglio informate.
Per venire alla domanda, quello che succede è che purtroppo questi 30-36 miliardi di spesa privata non sempre producono un valore che si somma al valore prodotto dal sistema pubblico. Sono due pilastri che hanno logiche diverse e a volte si elidono anziché sommarsi. Tipicamente, se io voglio essere ricoverato in ospedale e voglio che mi segua il primario faccio la visita privata da lui a pagamento, dopodiché vado in ospedale dove mi rifanno la visita.
Quindi con quei soldi in realtà io ho comprato la relazione fiduciaria col primario, non un contenuto clinico. Questo è un tipico esempio in cui il fatto di pagare 150 euro e poi entrare nel sistema pubblico non produce una somma di benefici, al contrario i due sistemi si elidono.
Questo dovrebbe farci riflettere sui pericoli della mutue integrative: nel momento in cui frammentano il sistema rischiano di produrre un valore che è inferiore alla somma delle risorse in gioco. Un problema non secondario perché oramai il rapporto è 75% spesa sanitaria pubblica e 25% spesa privata.
Secondo me, una delle risposte a questo problema potrebbe stare nel fatto che siano le aziende pubbliche a vendere le prestazioni a pagamento così da integrarle… Cioè tu vieni ricoverato in ospedale, se vuoi avere il primario paghi. Così ti evito delle visite inutili. Tutto questo è lontano dalla cultura delle aziende pubbliche; poi c’è il problema di arbitrare questi incassi: quanto va a reddito del primario e quanto all’azienda? Infine così si inquina il sistema pubblico. Lo capisco, però rendiamoci conto che già oggi il sistema nei fatti non è universalistico.
Ma con il federalismo sanitario, la prospettiva qual è, che ogni regione prenda la propria strada?
È già così da anni. Di ciò di cui abbiamo parlato fino adesso nel Lazio non c’è nulla, così come in Campania o in Calabria. Le regioni italiane da anni sono in un percorso di divaricazione: le più forti stanno diventando più forti, le più deboli più deboli. Il federalismo sicuramente al momento non ha colmato i gap, ma li ha aumentati. Il timore è che negli anni a venire regioni forti come l’Emilia, la Toscana, la Lombardia, ecc. riescano a realizzare al 70-80% questi modelli ottenendo ottimi risultati; e che invece questo cambiamento sia così profondo e radicale che regioni più deboli come Lazio, Campania e Calabria non ce la faranno o solo in parte.
Come dicevo, bisogna vincere le resistenze culturali della popolazione e dei professionisti. I medici che lavorano in un piccolo ospedale non saranno contenti di vederselo chiudere. Lì le resistenze sono già ora fortissime. Laddove i sistemi collettivi amministrativi e politici sono forti riescono a vincere questi interessi professionali, dove sono deboli non ce la fanno. Uno dei problemi del paese oggi è come trasferiamo competenze in regioni che ne sono prive. Non credo che i soli meccanismi di punizione finanziaria siano sufficienti. Oggi la logica è: se un sistema funziona male, gli do meno soldi. Ho capito, però se non hanno le competenze per farlo funzionare meglio e tu gli togli pure i soldi funzionerà ancora peggio… Oggi lo Stato fa in modo che ognuno abbia le stesse risorse dopodiché: “pronti, via!” e ognuno se la gioca con le competenze che ha.
Così come l’abbiamo concepito finora, il federalismo è troppo concentrato sui meccanismi che rendono visibili le differenze di risultato e che creano incentivi a far meglio, però troppo poco attivato sul trasferimento di competenze e cioè sul “come ti aiuto”.
* Pubblicato originariamente sul n. 199 (dicembre 2012-gennaio 2013) di Una città