C’è un indice che scommette sulla scomparsa della classe media, ed è un indice che ci azzecca così tanto che va meglio del mercato. C’è una banca, Citigroup, uno dei colossi nati dal consolidamento bancario degli anni ’90, che lo traccia dal 2009 anche se l’idea era di 10 anni prima. C’è una realtà che sta sotto quell’indice, una realtà che conosciamo, che spacca il mondo a metà come una mela e che sta avendo una modficazione che pone seri problemi economici e politici.
Partiamo dall’indice. Già il nome è tutto un programma: «hourglass index», che significa «indice della clessidra» a esprimere appunto la sparizione di un luogo mediano, la radicalizzazione agli estremi. Come funzioni è presto detto: traccia l’andamento di 25 compagnie che stanno ai due opposti dei consumi, o nella fascia più alta o in quella più bassa. Per fare un esempio, l’indice da una parte include titoli del lusso come la svizzera Richemont (che controlla marchi come Mont Blanc, Van Cleef & Arpels, Shanghai Thang, Cartier,…) e dall’altra stock come quello della spagnola Inditex che possiede la catena di abbigliamento Zara. «Da quando abbiamo pubblicato il nostro ultimo rapporto il 4 ottobre 2010 il ritorno di questo portfolio è stato del 26,1% (escludendo Nestlé perché da sola rappresenta il 46,1% della capitalizzazione dell’indice) comparato a un ritorno del 4,6% per l’indice Msci All Country index nello stesso periodo» scrive la banca nell’ultimo rapporto disponibile. La «teoria della clessidra del consumatore, che suggerisce che la spesa dei consumatori sarà concentrata nella parte alta e in quella bassa […] ha funzionato con successo negli ultimi due anni» scrive ancora Citi. Insomma, conviene puntare su ricchi e super ricchi o sui ceto meno abbienti, tanto la polarizzazione in corso spinge il ceto medio in uno di questi due contenitori. E la teoria, come mostra l’indice, funziona.
A dire il vero, prima di Citi il principio della clessidra era stato attuato da Procter&Gamble, il gigante dei beni di consumo Usa che funge da cartina di tornasole del settore. Non solo si stima che ogni famiglia americana abbia in casa almeno un prodotto di P&G ma sir Martin Sorrell, fondatore di Wpp, primo gruppo pubblicitario al mondo, qualche anno fa al festival della pubblicità di Cannes raccontava che spende una settimana all’anno a Cincinnati (dove ha sede P&G) «perché da lì capisco come andrà il mondo». Bene, colpita dal fatto che molti suoi consumatori ora cercavano prodotti più economici, nel 2011 ha lanciato un detersivo per piatti a prezzi stracciati (un prezzo così basso che non hanno manco fatto lo sforzo di dare un nome al prodotto, l’hanno tautologicamente battezzato «Dish»). «Ci viene richiesto di pensare il nostro portfolio di prodotti in maniera diversa e di pensare come appagare i mercati nella parte più alta e in quella più bassa, lì, ad essere franchi, è dove sta avvenendo molta della crescita» ha detto Melanie Healey, presidente di P&G North America al Wall Street Journal.
E come al solito P&G ha fatto scuola. Heinz, il gruppo alimentare, negli ultimi anni ha sviluppato più prodotti per la fascia bassa mentre la catena di abbigliamento Saks si è spostata nella fascia più alta. D’altra parte i dati sono noti: ad esempio Edward Wolff, economista della New York University, stima che il valore netto – gli asset meno i debiti – del quinto delle famiglie americane che rappresentano il cuore della middle class sia cresciuto del 2,4% l’anno fra il 2001 e il 2007 per perdere il 26,2% nei due anni successivi.
L’ECONOMIA DELLA CONOSCENZA AGGRAVIA IL QUADRO
Parlando di Middle class negli Usa spesso si intende il proletariato qualificato e la piccola borghesia mentre questi dati si riferiscono a quel 40% di famiglie americane che hanno un reddito compreso fra i 40 e 150 mila dollari. Ci sono infatti diverse definizioni di classe media (ad esempio nei rapporti sulla ricchezza di Credit Suisse si intende per Middle Class chi guadagna fra i 10 e 100 mila dollari l’anno). Chi lavora su questi temi contesta che il dato sulle famiglie (household) abbia senso (secondo i dati dell’US Census una casa composta da due infermiere guadagna 126 mila dollari mentre l’entrata media di un avvocato è di 94 mila). Insomma, non ci sono definizioni univoche. Il reddito della classe media non teneva il passo con l’inflazione già prima della crisi, ma a stringere in una morsa la middle class americana è stato che mentre i prezzi dei beni di consumo scendevano il costo delle assicurazioni e dell’istruzione saliva e, mentre l’acquisto di un auto nuova si può rimandare, lo stesso non vale per una retta scolastica.
In questo quadro anche la knowledge economy, e la implicita competizione sul capitale umano,rischiano di essere un ulteriore fattore di aggravamento per il ceto medio. Ha ragione ovviamente Enrico Moretti, economista a Berkeley, a dire che la vera disuguaglianza nelle economie più avanzate non è solo fra il reddito reale dell’1% degli americani più ricchi che negli ultimi quarant’anni è cresciuto del 300%, mentre il reddito del 20% più povero è cresciuto di appena il 40%, ma fra tra il 30-35% dei lavoratori che hanno una laurea o un’istruzione post-laurea, e il 60-65% dei lavoratori che non hanno una laurea. Il nodo per la crescita dei salari, lo sappiamo, è la produttività e da questo punto di vista il settore tecnologico gioca un ruolo fondamentale, sia direttamente che indirettamente. Se è vero infatti, come scrive Moretti nel suo libro The new geography of jobs, che ogni posto di lavoro high tech ne genera altri cinque, che magari non hanno nulla a che fare con la tecnologia (dai parrucchieri agli avvocati, dai contabili ai camerieri) è vero che conviene puntare sull’high tech, sull’innovazione. Anche perché alcuni studi dimostrano che più un’impresa è innovativa, meglio paga i suoi dipendenti. Ma come abbiamo in parte già visto proprio i costi dell’istruzione sono quelli che stanno strangolando le famiglie Usa. Secondo i dati del Consumer Financial Protection Bureau negli ultimi 10 anni il rialzo delle rette universitarie è stato del 40%. E la storia di Ella Edwards, che a 61 anni con una paga oraria di 9 dollari, si è trovata con le banche che le chiedevani di pagare 40mila dollari per il rimborso del prestito fatto dal figlio Jermaine, che è però deceduto durante gli studi, ha fatto impressione. Alla fine la cifra è stata pagata da un ignoto benefattore ma solo dopo che Ella è andata in giro per le radio del Paese ammonendo i genitori: «non garantite voi per i vostri figli. Avessi saputo prima […] non avrei mandato mio figlio all’università».
CETO MEDIO E STABILITÀ POLITICA
Varcando l’Oceano in Italia il nodo ha che fare con uno stato ingombrante come quelli nordici ma senza gli stessi esiti redistributivi. Scrive Giuseppe Roma del Censis: «se guardiamo agli ultimi vent’anni sia dal punto di vista del reddito annuale che della ricchezza posseduta, a perdere di più non sono gli strati più bassi ma proprio la parte centrale e maggioritaria del corpo sociale. Il ceto medio nel periodo 1991–2010 ha perso circa il 4 per cento del reddito disponibile complessivo annuo, mentre le famiglie con meno di 15 mila euro annui lo 0,2 per cento». D’altra parte se i dati dicono che un giovane italiano sotto i 30 anni guadagna in media 823 euro al mese significa che la capacità di risparmio su cui si è basata la prosperità del ceto medio che investiva in immobili è finita in cantina. E la musica non cambia nella locomotiva d’Europa: in Germania dice la Diw, l’istituto per la ricerca economica, negli ultimi 15 anni il ceto medio sarebbe diminuito quasi di sette punti, dal 65 al 58,5% della popolazione (47,3 milioni) un calo pari a 5,5 milioni di persone mentre un appartenente su quattro alla classe media ha paura in un prossimo futuro di non poter mantenere il proprio tenore di vita.
Il declino del ceto medio Usa è condiviso in gran parte del mondo occidentale mentre nei paesi emergenti funziona al contrario. Quando Jim O’Neill di Goldman Sachs dice che la classe media globale si arrichirà di altri due miliardi di persone da qua al 2030 lo dice perché si riferisce soprattutto ai Bric (a cui diede lui nome) e più in generale agli emergenti (come mostrano il grafico qui sotto del Credit Suisse).
Ora, il problema politico è che la classe media è stata vista weberianamente come quella capace di stabilizzare i processi democratici perché non esposta ai radicalismi delle classi più basse né alle tendenze autoritarie di quelle più alte. La sua erosione ha, da questo punto di vista, un potenziale impatto sulla stabilità politica. Obama è stata eletto la prima volta proprio su un’agenda che contemplava la protezione della classe media. Un valore che ha ribadito anche nel suo discorso di insediamento del secondo mandato: «La prosperità della nostra nazione si deve fondare sul lavoro di una classe media forte». In Israele la sopresa elettorale nelle ultime elezioni è stato il partito dell’ex anchorman Yair Lapid che fra i suoi punti ha proprio questo: il paese cresce (almeno quello) ma la classe media non porta a casa benefici. «Questa è la grande domanda posta dalla classe media, lo stesso ceto per cui sto entrando in politica: dove sono finiti i soldi? Perché il settore produttivo, che paga le tasse, rispetta gli impegni, fa il servizio militare e porta il fardello dell’intero paese sulle sue spalle non vede il denaro?». A questo va aggiunto che in un paese come il nostro dove circa il 70% delle aziende vive di mercato interno, l’erosione del ceto medio diventa anche l’erosione della capacità di acquisto di una parte rilevante dei consumatori. Le aziende che producono beni per il ceto medio dovranno riorientare la produzione verso la «clessidra» del Glasshour index? Ma è sostenibile questa evoluzione?
L’ILLUSIONE DELLA REINDUSTRIALIZZAZIONE
Cosa sia successo è nella pubblicistica di questi anni. Tecnologia e globalizzazione, sono sul banco degli imputati. Ma se la dinamica del mercato globale soffia in questa direzione, le politiche redistributive nazionali avrebbero dovuto andare in senso contrario per mitigarne gli effetti. Cosa che non è successa per via di diverse ragioni, inclusa una classe dirigente troppo vicina a interessi particolari dati i laudi guadagni che produceva questo sistema di produzione. Ora poi questi stessi fenomeni che hanno portato via il lavoro sono quelli che lo stanno riportando a casa, almeno negli Usa. Il rialzo dei salari in Cina e la minor necessità di manodopera grazie alle nuove tecnologie stanno giocando un ruolo importante nell‘insourcing.Fa bene quindi l’Economist a sottolineare che Lenovo torna a produrre pc negli Usa e l’importanza della mossa di General Electric che nel 2011 ha aperto uno stabilimento in North Carolina. Ma va anche aggiunto che la mossa di GE è anche dovuta al fatto che i lavoratori della nuova fabbrica sono pagati 18 dollari l’ora, quasi la metà rispetto alla paga oraria degli operai sindacalizzati degli altri impianti.
E, restando in tema, Caterpillar, il gruppo produttore di veicoli e macchinari per costruzione ed estrazione, ha utilizzato una disputa sindacale con le trade union canadesi per riportare a casa parte della produzione. Nell’impianto di La Grange, Illinois, i dipendenti guadagnano circa la metà dei loro omologhi canadesi dello stabilimento di London. Al loro rifiuto di diminuirsi la paga, Caterpillar ha spostato parte della produzione nell’impianto di Muncie, in Indiana. Questo per dire che non bisogna farsi troppe illusioni sulla re-industrializzazione dell’Occidente. Anche dovesse essere un fenomeno più generalizzato, non significa un ritorno ai bei tempi.
L’IPOD ALLARGA IL DIVARIO
E per capirlo occorre prendere in mano Who Profits from Innovation in Global Value Chains? A Study of the iPod and notebook PCs di tre economisti della University of California sulla creazione di valore generata dall’iPod della Apple (dove scopriamo che il margine di Apple sull’Ipod da 30 giga con video, al 36%, è più alto della media ma non di molto mentre alcuni produttori di componenti come Intel riescono ad avere in alcuni casi margini quasi doppi) ma soprattutto il loro Innovation and Job Creationin a Global Economy:The Case of Apple’s iPod. I tre autori Greg Linden (Berkeley) Jason Dedrick (School of Information Studies, Syracuse University) e Kenneth L. Kraemer (University of California) hanno studiato la dinamica della produzione dell’iPod. Quello che ne risulta è che ha prodotto più lavoro all’estero che in patria, come si vede dalla tabella seguente:
I posti di lavoro prodotti negli Usa sono circa 14mila rispetto ai 27mila creati all’estero. Vale a dire che anche il massimo dell’innovazione, il modello di azienda per definizione, crea valore per gli altri e non per la diretta costituency di quell’azienda? Può sembrare così, ma guardate invece un’altra tabella contenuta nel paper:
Ecco quello che ne risulta è che la ricchezza prodotta dalle vendite dell’iPod è andata soprattutto negli Usa (745 milioni di dollari) rispetto ai 320 milioni andati negli altri paesi coinvolti. E questa è la buona notizia. Resta però da notare come i 6mila ingegneri Usa abbiano incassato 525 milioni mentre gli altri 7.789 lavoratori (soprattutto personale addetto alla vendita) hanno incassato meno della metà. La conclusione a cui arrivano gli autori è che se l’iPod ha prodotto più posti di lavoro all’estero ha però prodotto più ricchezza per gli Usa. Anche se, anche qui, aggiungiamo noi, in maniera fortemente polarizzata. «Il rapporto fra innovazione delle aziende e occupazione negli Usa è più articolato di quanto faccia intendere l’espressione “ceto medio in declino” – scrivono i tre autori . Quando prodotti innovativi sono disegnati e immessi sul mercato da società Usa, questi possono creare posti di lavoro di valore per i lavoratori americani anche quando questi prodotti sono fabbricati all’estero. L’incredibile successo di Apple con l’iPod e con altri prodotti innovativi negli anni recenti ha guidato la crescita dell’occupazione negli Usa nonostante la produzione avvenga fuori dal paese. Questi lavori sono ben pagati e impiegano personale in possesso di una laurea».
CONCLUSIONI
Per rimettere in moto la classe media non occorrono rivoluzioni. Già delle liberalizzazioni serie, vere ed efficaci sono meccanismo redistributivi come pure la lotta a qualsiasi forma di rendita, oligopolio e monopolio. Se a livello di politiche fiscali i margini sono stretti, politiche di mercato efficaci, e non tese solo a reificare il potere di chi già lo detiene, possono essere un ottimo inizio. Vale la pena ricordare che che in Italia il gruppo dell’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha ricevuto una multa dall’Antitrust per avere fatto un cartello che ha fatto danni alla Pubblica amministrazione e quindi a noi, visto che la finanziamo. Immagine plastica dei danni della rendita e di quanto parti del nostro sistema produttivo vivano di essa e non di mercato. Quello lo si lascia ai lavoratori.
E parlando di lavoratori i sindacati devono fare il possibile per aumentare la produttività e accettarla molto pragmaticamente come criterio principe nella scrittura dei contratti. La stessa nozione di «produttività» e i dati che la descrivono devono poi essere aggiornati. Il concetto come lo usiamo noiandava bene nel mondo della produzione talyoristica quando quella intellettuale era circa il 6%. Ma ora che nell’economia della conoscenza e dei servizi il lavoro intellettuale rappresenta circa il 70% della torta, usare questa parola in maniera acritica la rende cieca se non controproducente. Ma anche le aziende devono fare la loro, investendo in innovazione e tecnologia e smettendo di pensare di aumentare la produttività con straordinari pagati in nero. E magari evitando anche di pagare i manager multipli folli rispetto alla paga del dipendente medio ed evitando che il manager che distrugge ricchezza possa lasciare l’azienda con le tasche piene. L’imprenditore che si rende conto di avere preso un pessimo manager spesso si trova costretto a tenerlo perché cacciarlo gli costerebbe troppo. La flessibilità va attuata anche ai piani più alti.
Come racconta Chrystia Freeland, ex cronista del Financial Times, nel suo Plutocrats, a cui siamo debitori per una serie di spunti in questo articolo, stiamo vivendo una doppia Gilded Age, l’epoca a cavallo fra fine ’800 e inizio ‘900 a cui diede il nome Mark Twain nel suo The Gilded Age: A Tale of Today. Un’epoca di grande polarizzazione della ricchezza dove sotto la grande crescita economica si nascondevano enormi problemi sociali descritti da Twain. Ora, scrive Freeland, ce ne sono due in corso, una nei paesi emergenti e una nel mondo occidentale. Ma quella ora in corso nel mondo occidentale, la seconda Gilded Age, vede al centro spesso proprio manager strapagati e non imprenditori. Insomma una delle differenze rispetto alla prima, è che questa volta non si sta manco premiando il rischio: i manager sono dei dipendenti di lusso con solo una parte della remunerazione legata al rischio. La politica e le imprese possono quindi fare molto per invertire questa tendenza, come può fare il sindacato e come può fare un’alleanza fra consumatori, lavoratori e risparmiatori come invocata anni fa da Robert Reich, ex segretario al lavoro di Clinton, nel suo Supercapitalism, altro testo a cui siamo debitori per alcuni dei dati di questo articolo. L’alternativa che la clessidra si allarghi ulteriormente non sarebbe solo ingiusta, ma anche disfunzionale. A voi la scelta.
Twitter: @jacopobarigazzi