Doveva essere un conservatore, invece ha scatenato un uragano

Doveva essere un conservatore, invece ha scatenato un uragano

«Quei che fece per viltade il gran rifiuto…». Il precedente più famoso di dimissioni di un pontefice (pur sancite espressamente dal Codice di Diritto Canonico) è maledetto nei secoli da Dante in un passaggio del suo Inferno. Ma Dante Alighieri rimprovera “la viltà” di Celestino V solo perché aprì la via del trono papale a Benedetto Caetani, quel Bonifacio VIII poco gradito alla sua parte guelfa e certamente uomo di potere e sovrano ben più temporale che di spirito.

In realtà Celestino V, il monaco eremita Pietro da Morrone, era stato eletto per la sua profonda spiritualità e per mettere in ordine in una Chiesa devastata dalle lotte di potere e di denaro. E quando nel dicembre del 1294, rinunciò al mandato dopo solo cinque mesi dall’elezione, lo fece per la sua profonda umiltà e nel riconoscersi non all’altezza del grave compito. Un gesto ammirato dal Petrarca per “la libertà dell’uomo di spirito” anche se il povero Pietro da Morrone venne fatto arrestare dal suo successore e un paio d’anni dopo assassinato nella fortezza dov’era stato rinchiuso.

Ed è forse proprio l’umiltà e il bene reale della Chiesa che apparenta Ratzinger al così lontano predecessore. Quella condizione di «umile operaio nella vigna del Signore» che aveva segnalato per sé proprio nel giorno della sua elezione il 19 aprile 2005, nel confronto con “l’atleta di Dio”, il Papa polacco, al quale era stato chiamato a succedere. Una umiltà riservata e discreta che tuttavia era stata la divisa intima più profonda del coltissimo professore bavarese.

E c’è una nuova considerazione che viene suggerita dal coraggio inedito di questa quieta rinuncia. In fondo Ratzinger era sempre stato presentato come il retrivo conservatore, il “cane da guardia” della dottrina tradizionale, il “panzerkardinal” incapace di cogliere le novità e i tormenti dei cristiani nella complicata modernità contemporanea.

Invece si è rivelato nel corso degli anni e pur nelle tempeste che hanno attraversato la navigazione della barca di Pietro (la vicenda della pedofilia, il controverso rapporto con i lefebvriani, le opache difficoltà di comunicazione, fino alla vicenda dei “corvi” e all’arresto del suo maggiordomo), un sostanziale innovatore fino a quest’ultimo atto, fortissimo e quasi scandaloso, che apre una fase davvero diversa nel futuro della vita della Chiesa.

Il peso a volte schiacciante del ministero di Pietro era già stato in realtà bene sentito dagli ultimi pontefici: già Paolo VI aveva accarezzato l’ipotesi delle dimissioni. «Non ci si dimette dalla Croce», era stata allora la sofferta continuità accettata come calvario. E forse lo stesso atteggiamento restava nell’eroismo con cui Giovanni Paolo II (pur anch’egli tentato dalla rinuncia) aveva scelto di offrire la sofferenza della sua malattia come esempio al mondo della debole condizione umana e religiosa.

Certo la Chiesa (quella «carica di sporcizia» e «minacciata dai suoi mali interni», secondo le stesse parole di Benedetto XVI) si ritrova all’improvviso orfana e smarrita, come l’immenso popolo dei credenti. E con un supplemento di Spirito Santo al nuovo Conclave, incaricato dal 28 febbraio di trovare spalle più muscolose e braccia più giovani di una nuova guida (magari il primo Papa “nero”) toccherà anche la novità di far convivere la compresenza di due successori di Pietro. Una sfida in più per l’istituzione terrena più antica della Storia, che comunque regge da duemila anni con le sue cicatrici, i suoi santi e i suoi peccati.  

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