Non lo ricorderà nessuno. Ma in tutte le visite apostoliche in Italia proprio Benedetto XVI non aveva mancato di auspicare con forza l’emergere di nuove generazioni di cattolici disponibili a frequentare la politica, a coltivare la vocazione pubblica con le sensibilità e le competenze tipiche di quell’impegno civile. Così da affermare nella società quei valori naturali e cristiani costitutivi della condizione umana nel libero concorso di una “buona laicità”.
L’improvvisa rinuncia al Pontificato, un gesto inedito e coraggioso sul quale si interroga e riflette l’intero pianeta, sotterra nelle sue mediocri proporzioni una campagna elettorale tanto accesa quanto culturalmente inconsistente. (Solo un “bello spirito” come Saviano può twittare un sicuro scopo di interesse elettorale nella scelta di rinuncia di Ratzinger). Ma proprio i cattolici italiani si scoprono doppiamente orfani di riferimento nella Chiesa mentre con molto pudore ricordano il centenario (era nato il 13 febbraio 1913) di Giuseppe Dossetti, il leader democristiano padre della Costituzione della repubblica, che dalla politica militante aveva poi scelto la via del convento e della vita monastica.
È che la fine così anomala di un grande pontificato aumenta lo smarrimento di un laicato che pure si sentiva invogliato a partecipare , ma che si arrestava davanti alle contraddizioni e alla oggettiva difficoltà di esprimersi negli schieramenti. Così “Todi 1” e poi “Todi2”, fino al rinvio sine die di quella “Todi 3” nella quale legittimare e “battezzare” il premier Mario Monti. Inoltre tra indecisioni e convegni si è notato negli ultimi mesi lo sfrangiarsi dei “Movimenti” sui quali per un lungo periodo si era appoggiata la presenza politica e l’attenzione della gerarchia organizzata nella CEI.
In fondo a suo modo la linea Ruini, tanto avversata all’interno stesso della Chiesa e nel vastissimo arcipelago delle organizzazioni cattoliche, aveva comunque “prodotto” sul piano politico e in sede parlamentare convergenze significative sul terreno dei “valori non negoziabili” e indubbie affermazioni popolari come il referendum sulla procreazione assistita o la grande folla del “Family Day”. Attaccati sì,ma mai irrilevanti nel discorso pubblico, era la divisa storica di quella stagione, ormai ben poco rimpianta. Ma la necessità di voltare comunque pagina ha segnato altresì la crisi di credibilità (e di potere) dei “Movimenti”: e non soltanto la perdita di ruolo di Comunione e Liberazione, ma anche di tutti gruppi di natura carismatica (come il “Rinnovamento dello Spirito”) e lo scarso spessore politico delle organizzazioni di maggior vocazione sociale (dalle ACLI alla stessa Cisl alle Reti di impresa) tentate da un “vorrei ma non posso” e con qualche impegno del tutto personale nelle candidature di diversi partiti per le imminenti elezioni.
Perfino la Comunità di Sant’Egidio, molto ripresa dal sistema mediatico, non è riuscita a proporsi come capacità di guida del variegato mondo ecclesiale e del suo possibile impegno civile. Lo stesso suo leader, Andrea Riccardi, che pure si è speso come ministro per la Cooperazione nel governo tecnico, ha chiaramente fallito nel suo disegno di porsi come “federatore” di forze fresche e cristianamente ispirate, fino al punto di rifiutare l’impegno diretto in prima persona nella democrazia del confronto con gli elettori.
E anche quel filo di nostalgia per un partito di cattolici, com’era stata l’irripetibile parabola della Democrazia Cristiana, si sfarina in un coacervo di dubbi culturali e di velleità impotenti. E la vicenda straordinaria e sconvolgente dell’abbandono di Benedetto XVI amplifica e accentua il sentimento diffuso di riscoprirsi “stranieri in patria” nell’ambito pubblico e nella sfida della politica. Forse è venuto il tempo nel quale l’Italia può fare tranquillamente a meno nella realyà laica del contributo organizzato dei cattolici, pur se la Storia e l’identità profonda del Paese sembrano proprio dire il contrario.
Sul ritardo culturale e il deficit di rappresentanza politica ci si è interrogati a lungo nell’eterna fase di transizione che il Paese ha attraversato e forse continua ad attraversare. E forse l’unica diagnosi persuasiva è quella venuta dal presidente del Censis, Giuseppe De Rita. Secondo il quale la vera tragedia dei cattolici italiani e del loro impegno civile è che non sono mai riusciti ad uscire dal recinto di un consolidato (e forse antiquato) “statalismo”. Che li ha resi progressivamente subalterni ad altre culture politiche e pateticamente obsoleti di fronte agli impetuosi mutamenti di una difficile modernità, globalizzazione compresa.
Finendo così per deprimere e nascondere quel patrimonio di libertà e di sussidiarietà verso lo Stato (così naturalmente omogeneo alla dottrina sociale) e capace di innervare al meglio proprio la società contemporanea e futura.