Ma quanto pesano le lobby sulle elezioni?

Finanziamento ai partiti

Un Parlamento corrotto è un problema per ogni nazione. Ma quando il parlamento in questione è il Congresso degli Stati Uniti, allora è un problema per tutto il mondo. Perché l’America non è solo la superpotenza globale, con un Pil di 16 trilioni di dollari e oltre 300 milioni di abitanti. È la prima democrazia del pianeta, il simbolo dell’Occidente. O almeno così si dice.

Le critiche al Congresso non vengono solo da intellettuali dissidenti come Noam Chomsky, o dal movimento Occupy Wall Street. «Capitol Hill è un brutto posto… – dice a Linkiesta, in via riservata, un giornalista anglosassone che conosce bene sia Washington DC che Roma – C’è molto fango lì, e anche molta ipocrisia. Al confronto gli intrighi in Vaticano sono giochi per bambini.»

I primi a nutrire scarsa fiducia nel Congresso, però, sembrano essere gli stessi americani. La gente comune. Secondo un sondaggio Gallup del gennaio 2013, solo il 14% degli statunitensi approva l’operato del Congresso. E sempre secondo Gallup, appena il 10% degli americani pensa che gli standard etici e di onestà dei loro rappresentanti siano alti o molto alti. In realtà i membri del Congresso sono la categoria professionale meno stimata d’America dopo i venditori di auto usate. Persino gli avvocati e i banchieri se la cavano meglio.

Certo, il Congresso non ha mai goduto di gran fama, nell’esuberante democrazia americana. Già Mark Twain, nel 1881, scriveva: «Lettore, supponi di essere un idiota. E supponi anche di essere un membro del Congresso. Ma mi sto ripetendo». Tuttavia sembra difficile negare l’erosione di credibilità del Parlamento a stelle e strisce. E una delle cause di ciò sarebbe la crescente influenza delle lobby. Di K Street, insomma, per usare il gergo del giornalismo politico statunitense.

Parabole come quelle di Jack Abramoff, peraltro, non contribuiscono a rassicurare gli elettori. Per anni Abramoff era stato considerato, a Washington, il principe dei lobbisti. La sua idea di giornata perfetta era, come ha scritto lui stesso nel libro Capitol Punishment, «annientare i nemici dei nostri clienti». Lavorava spalla a spalla con uomini che «sapevano seppellire l’ascia di guerra: nella testa dell’avversario». Nel 2006 Abramoff è stato condannato a tre anni e mezzo di prigione per aver corrotto funzionari del Congresso e del governo ai tempi di George W. Bush, e aver truffato per milioni di dollari delle tribù indiane (“trogloditi”, li definiva in una email). A detta di Abramoff, però, mazzette e regali sarebbero una pratica comune a Washington. Una specie di sport, insomma, che si giocherebbe sulle rive del fiume Potomac da gennaio a dicembre.
Il problema è noto. Negli Stati Uniti le lobby hanno un’influenza politica e mediatica enorme. E sono in molti, a torto o a ragione, a gridare allo scandalo. L’avvocato e attivista radicale Ralph Nader, parlando delle lobby del settore petrolifero, ha dichiarato in merito: «La lobby aziendale a Washington è pensata, in sostanza, per soffocare ogni attività legislativa favorevole ai consumatori». Quanto dice Nader potrebbe essere esteso anche a molte altre lobby. Il Big Oil non è l’unico gruppo a conoscere il significato della massima latina pecunia non olet. Il denaro non puzza.

Perché il potere delle lobby nasce proprio dal denaro. Un esempio, tratto da un’approfondita analisi della Reuters: nel 2009, quando il Congresso stava valutando la possibilità di tassare le bibite gassate nella nazione più obesa del pianeta, l’industria delle bevande ha speso oltre 40 milioni di dollari in attività di lobbying, contro i 5 scarsi dell’anno precedente; alla fine il Congresso ha lasciato perdere, e il flusso di quattrini si è ridotto, sino a toccare i 10 milioni di dollari nel 2011.

Altrettanto discutibili sono le modalità di finanziamento delle campagne elettorali. Sempre più costose, peraltro: le presidenziali del 2012 hanno battuto ogni record storico, superando i 2 miliardi di dollari. E in base alle analisi dell’organizzazione non-partigiana Americans for Campaign Reform, le cosiddette elezioni di midterm del 2010 sarebbero state finanziate per due terzi dallo 0,04% della popolazione americana.

Ecco perché merita una lettura Republic, lost (Twelve Books). Scritto da Lawrence Lessing, docente di diritto alla Harvard Law School, il libro ha un sottotitolo eloquente: “How money corrupts Congress – and a plan to stop it” (Come il denaro corrompe il Congresso, e un piano per fermarlo). A parere di Lessing, praticamente ogni questione importante della politica americana di oggi è legata alla riforma delle modalità di finanziamento delle campagna elettorali. «Finché non si risolve tale questione, il governo sarà in stallo».

D’altra parte, come potrebbero i membri del Congresso decidere serenamente su tematiche cruciali come la limitazione delle emissioni di anidride carbonica, quando il movimento contro l’intervento legislativo può spendere oltre duecento milioni di dollari, e il movimento a favore poco più di un decimo ? Ancora, è comprensibile che i costi sempre più esorbitanti delle campagne elettorali rafforzino i lobbisti; ogni membro del Congresso trascorre dal 30% al 70% del suo tempo raccogliendo denaro, dedicandone molto meno, invece, a ciò per cui in teoria sarebbe pagato, cioè legiferare. Non che l’onorario di un rappresentante del popolo sia comparabile con quello di un bravo lobbista: tra il 1998 e il 2004 ben il 50% dei senatori e il 42% dei deputati è passato dall’altra parte della barricata.

Secondo Lessing la soluzione è in realtà semplice: creare una modalità alternativa di finanziamento elettorale. In poche parole ogni elettore dovrebbe ricevere dal governo federale un “voucher della democrazia” da 50 dollari. Tale buono sarebbe utilizzabile esclusivamente per supportare quei candidati agli incarichi federali che hanno accettato di finanziarsi con i buoni stessi, o con contributi privati inferiori ai 100 dollari.

Negli Stati Uniti la proposta di Lessing ha fatto molto discutere. Nella sua recensione per il New York Times, Thomas B. Edsall, docente di giornalismo alla Columbia University, ha mostrato un certo scetticismo. “Con miliardi di dollari in gioco, le aziende (e gli interessi forti in generale) hanno costantemente trovato i modi per evitare e schivare gli ostacoli. Quelli che hanno il potere vantano un lungo primato nell’aggirare le riforme, o nell’usare i parametri legali a loro vantaggio.” In sintesi: fatta la legge, trovato l’inganno.
«Il libro di Lessing è una sincera disamina di un problema reale che ha destato molta attenzione. – spiega a Linkiesta il politologo Bruce Buchanan, docente all’Università del Texas – Il denaro influenza il Congresso a un livello innegabile e molto antidemocratico. Ma data la decisione della Corte suprema [che ha legittimato le spese illimitate di aziende e sindacati a favore di candidati federali], la necessità di grandi quantità di denaro per essere eletti negli Stati Uniti, e l’inefficacia delle precedenti riforme, all’orizzonte non ci sono facili soluzioni.»

Ben più pessimisti gli esperti italiani sentiti da Linkiesta. Per Luciano Canfora, professore ordinario alla facoltà di lettere dell’università di Bari, bisogna fare due osservazioni sulla proposta di Lessing. «La prima è che questo meccanismo non sarà mai applicato, perché è impossibile impedire a una lobby di far arrivare i quattrini nei modi più sofisticati, sottili e incontrollabili. È un meccanismo che non mi convince proprio. Il valore della proposta, poi, è ancor meno convincente, perché determina un rapporto capillare elettore-eletto. Ogni eletto dovrà tenere conto della pressione, ovviamente inevitabile, dei suoi infiniti datori di quattrini. – precisando – Non capisco come si possa prendere sul serio un’idea del genere.»

Canfora sottolinea poi come la democrazia americana dovrebbe essere piuttosto definita un «sistema rappresentativo, perché la democrazia è un’altra cosa. Negli Stati Uniti accade qualcosa di totalmente aberrante. Se lei pensa che vota meno della metà degli aventi diritto, anche quando la campagna elettorale è molto accanita, e vince chi ha la maggioranza di meno della metà degli aventi diritto al voto, è chiaro che l’eletto rappresenta una minoranza. – e aggiunge – Il problema diventa ancora più grave se si considera che il non voto è dovuto al rifiuto, all’assenteismo, alla paura, al disinteresse, o addirittura al fatto che il certificato elettorale non raggiunge l’elettore a casa sua, ma deve essere ritirato in alcuni uffici. Un modo, questo, per scoraggiare l’elettore.»

Se per il docente «la cosiddetta democrazia americana è un meccanismo impazzito», la situazione italiana non è certo migliore. «Oserei dire che il nostro sistema di finanziamento ai partiti è illegale. Ci fu un referendum che lo abrogava, e noi ce ne siamo infischiati. Così come approvammo il ministero dell’agricoltura, e nacque immediatamente quello delle politiche agricole. I nostri concittadini sono dotati di una pazienza infinita. Sono dei veri fachiri. Siamo un Paese di fachiri.»

La proposta di Lessing non convince molto neanche il professor Carlo Galli, ordinario di storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna. «Se entriamo nel merito di quello che succede negli Stati Uniti, si tratta effettivamente di una serie di comportamenti che rendono la democrazia americana, di fatto, una specie di plutocrazia. Candidati che a ogni livello, ma in modo eclatante a livello della presidenza, ricevono quantità gigantesche di finanziamenti da parte delle corporation, oltre che dai cittadini, naturalmente. – dice a Linkiesta.

I crescenti costi delle campagne elettorali, riconosce Galli, rendono più forti le grandi aziende, e «il loro terrificante potenziale economico.» Tuttavia la soluzione proposta da Lessing gli sembra «un po’ ingenua». Si tratta, argomenta, «di un rimedio molto superficiale rispetto al vero problema, che è trovare contrappesi politici rispetto al potere economico. Perché il problema è questo. Non so quindi quanto la soluzione di Lessing sia davvero incisiva.»

E sulla possibilità che la proposta di Lessing possa essere importata nel dibattito politico nostrano, Galli si mostra tiepido. «Non fa molta differenza, se lei pensa che il finanziamento ai partiti nella forma del rimborso delle spese elettorali viene fatto su base proporzionale al numero dei voti ottenuti. È come se venisse dato un voucher a ciascun cittadino, e poi i cittadini decidessero a chi darlo.» La differenza, insomma, è che il sistema italiano funziona ex post, quello proposto da Lessing ex ante.

«Il punto piuttosto è un altro – sottolinea Galli – Vogliamo diminuire il potere dei partiti? Io, personalmente, no. Vogliamo diminuire il potere delle forze economiche sulla politica? Io, personalmente, sì. Allora per quest’ultimo scopo trovo utile che vi sia un finanziamento pubblico ai partiti. Che sia ex ante o ex post, prima o dopo, poco importa. Un finanziamento pubblico, unito a un maggior finanziamento da parte dei militanti, metterebbe i partiti in grado di avere un minimo di indipendenza dai grandi poteri economici.»
A parere di Gianfranco Pasquino, docente presso il Bologna Center della School of Advanced International Studies della John Hopkins University, la proposta di Lessing «ha un suo fascino, ma è assolutamente non applicabile. Non ci sarà mai un Congresso disposto ad approvare un sistema di questo genere.» Una battaglia persa in partenza, in sintesi, se si considera quanto sia improbabile che repubblicani e democratici sostengano una proposta simile.

Quanto a importare la proposta di Lessing in Italia, Pasquino parte da un presupposto. Il sistema italiano di rimborsi elettorali ai partiti «è assolutamente balordo. Ha prodotto una serie di inconvenienti notevoli, a prescindere, naturalmente, dalla corruzione. Ha prodotto una situazione nella quale ci sono enormi squilibri tra i partiti e i candidati, e non ci sono mai controlli, o se ci sono arrivano troppo tardi, quando li fa la magistratura. I partiti non sono neanche in grado di creare una struttura adeguata per controllare le porcherie che fanno». E ancora:  «Quest’idea di far finanziare i partiti soltanto ai cittadini è un’idea che i Radicali hanno a lungo proposto e oserei dire, senza alcuna cattiveria, cavalcato. Ma che non può fare strada. Se mi chiede se sono favorevole la risposta è tendenzialmente sì. Se mi chiede se penso che questo possa succedere, la mia risposta è né prima né poi».

D’altra parte a bocciare la proposta di Lessing sembra essere anche la matematica. In Italia, nel 2011, i rimborsi elettorali ai partiti hanno superato i 200 milioni di euro. Gli aventi diritto al voto sono circa 47 milioni. Se a ciascuno di essi venisse dato un “voucher della democrazia” da 50 euro, al voto nazionale si potrebbero superare i 2,3 miliardi di euro di spesa. Naturalmente è un calcolo davvero approssimativo, che ad esempio non considera gli astenuti e i voti nulli. Tuttavia dà l’idea di quanto potrebbe costare in Italia la proposta di Lessing. D’altra parte, non è solo una questione di soldi. In gioco c’è la democrazia. Che i grandi poteri economici sembra stiano privando di significato. In America, ma anche altrove.

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