Post SilvioNel paese dei bugiardi paga il conto la vanità di Oscar

Nel paese dei bugiardi paga il conto la vanità di Oscar

E così, per quel vanitoso rompiscatole di Oscar Giannino, l’Italia scoprì di essere rigorosa quanto un paese anglosassone. Quasi di più. Nel paese in cui si è potuto votare, in parlamento, che Ruby Rubacuori era davvero ritenuta nipote di Mubarak. Nel paese in cui una classe politica informe seleziona se stessa e non si capisce per fare cosa. Nel paese in cui i manager e gestori di aziende di ogni scala possono distruggere valore, predicare il mercato e poi rimanere al proprio posto. Nel posto in cui il concetto stesso di regola sembra suonare fastidioso. Insomma, in questo paese, che si chiama Italia, l’unico che salta per aver detto una palla si chiama Oscar Giannino.

Oscar Giannino lo si conosce, e da queste parti siamo in diversi ad essere legati a lui come a una grande personalità e professionalità incontrata in un punto iniziale, e comunque importantissimo, di una carriera. Persona di grande intelligenza, di cultura enciclopedica e insieme rapida all’uso, ed evidentemente segnata da un difetto che non detiene certo da solo: una grande vanità. Sì, la vanità di Oscar – chi lo conosce lo sa – è tanto grande da poter diventare un vezzo, la sfacciataggine di un look unico, e quel tanto di voglia di non accontentarsi del semplice riconoscimento, della voglia di vincere di fronte ad astanti che lo ascoltano come fosse un oracolo quando parla (perché Giannino è veramente ma veramente bravo). Naturalmente, un conto è vantarsi a parole di relazioni vere o verosimili (il name dropping, come dicono i maestri anglosassoni); altro è vantarsi per iscritto (o peggio, essersi dimenticato di quelle vecchie millanterie lasciate in giro in rete, chissà perché, poi) di titoli di studi internazionali e italiani mai conseguiti. Sì, Oscar Giannino ha fatto proverbialmente “la cazzata”. La cazzata non perdonabile – ovviamente – dentro al perimetro di regole e loro rispetto degne di un paese serio, che della lealtà insita nella parola data fanno un valore non negoziabile. La frittata è doppia, se si pensa alle parole d’ordine di un “posto politico” nuovo, come Fermare il Declino, che tra snobismo e volontarismo voleva portare un’aria nuova, di diversa civiltà, di nuovi lessici e lucidatura di vecchi principi, dentro a quella palude ribollente che è la scena politica italiana. E insomma, l’errore di Oscar, diremmo il suo peccato, non è perdonabile nel contesto di testimonianza in cui esso avviene. Per questo ne viene travolto, con Luigi Zingales che alza il ditino e tanto basta a fare il patatrac. Lascio volentieri il campo a tutti quelli che sanno come inteprpetare la tempistica del prof di Chicago, i motivi non detti, le alleanze inconfessabili e le prime pagine di ciarpame del Giornale di Feltri&Sallusti. Sia come sia, nel merito della vicenda, è difficile dare torto a Zingales, tanto più che l’Università americana in cui Giannino (non) ha conseguito il master è quella di cui è uno dei principali nomi accademici. E in America la reputazione è una cosa seria, ma davvero.

Quel che però sconvolge, in tutta questa vicenda, non è la leggerezza di una bugia un po’ scema e davvero inutile. No. È la sproporzione del marchio d’infamia apposto sul corpo del frontman di un piccolo partito, ignorato dai partitoni, maltrattato o snobbato dai giornali e dai media, che avrebbe combattuto a fatica per un pugno di seggi in parlamento e che non avrebbe mai davvero determinato nessuna dinamica di potere. Come tutti i movimenti piccoli e dotati di tratti carismatici e vagamente messianici, anche Fare – Fermare il declino ha i suoi adepti scamlmanati: li conosco e so che, in buona fede, mi grideranno che è anche colpa nostra, perfino mia, se da quella storia non sarebbe uscito comunque nulla di decisivo. Oscar, io e tanti altri sappiamo che non è così e che il destino naturale di un libertarismo e liberalismo di matrice anglosassone, in Italia, è purtroppo quello della piccola avanguardia. E tuttavia, su questa piccola avanguardia di testimonianza, è arrivata la bomba atomica dello scandalo reputazionale. Dell’abominio della bugia. Manco abitassimo, ma per davvero, un paese in cui la credibilità di chi si candida – per davvero, con possibilità concrete, per vincere – sia messa regolarmente al vaglio, in profondità e su tutti i requisiti di credibilità politica e personale. Manco fossimo alla fine di una campagna elettorale in cui – per stare fermi alla cronaca – parole come Finmeccanica, Mps, debito pubblico, interessi privati, patrimoni personali, eventuale utilizzo di scudi fiscali, fossero state usate come grandi occasioni per frugare davvero a fondo nella credibilità di una classe dirigente che – stando ai numeri dei risultati ottenuti – dovrebbe nella migliore delle ipotesi essere pensionata da un pezzo.

E invece – viva il Belpaese – il contapalle è Giannino. Ora, quelli che lo hanno sempre trattato come un buffone, esulteranno: i facistelli di ogni colore in pubblico, i tanti vigliacchi di quest’era triste in privato. Non consolerà il protagonista vanitoso di questa storia, nè varrà come occasione per non riconoscere il proprio errore: ma vogliamo che sappia che vuol dire che bisognava provarci e che bastava proprio poco per mettere paura a lor signori.