Texas, stato eccezionale perché i texani sanno esserlo. Lo dice George P. Bush, figlio dell’ex governatore della Florida Jeb, nipote di George H. e George W., rispettivamente 41° e 43° presidente degli Stati Uniti d’America. E lo fa in un video in cui annuncia la sua candidatura per la carica di Land Commissioner dello stato americano, apparso on line settimana scorsa, mentre il primo comunicato ufficiale era giunto dal suo account di Twitter.
Classe ’76, cattolico, avvocato uscito dalla University of Texas School of Law, sposato dal 2004 con Amanda che ha conosciuto proprio durante gli anni accademici e luogotenente nella riserva della Marina, George P. è dunque l’ultimo nell’albero genealogico della dinasta Bush che muove i passi nel mondo della politica: una storia cominciata nel secolo scorso e a latitudini ben diverse da quelle del Sud e che ripercorre i capitoli della Right Nation, l’America dall’animo conservatore che prima si raggruppò attorno al candidato alle Presidenziali del 1964 Barry Goldwater, sconfitto dal texano democratico Lyndon Johnson, e poi trovò consacrazione con lo sbarco a Washington di Ronald Reagan, al quale i Bush sono strettamente legati.
Il nonno, George H., ha ricoperto il ruolo di vicepresidente durante i mandati reaganiani e ne raccolse il testimone nel 1988, prima che Bill Clinton riuscisse a porre termine al filotto del Grand Old Party nel 1992. Una parentesi di otto anni, nel 2000 fu il turno di George W.
In principio fu Prescott Sheldon Bush, banchiere di Wall Street e senatore dal 1952 al 1963 per il Connecticut, il piccolo stato della regione del New England che ai tempi era bacino di voti per il Partito repubblicano, dal dna profondamente diverso rispetto a quello attuale. Secondo John Micklethwait (oggi direttore dell’Economist e già responsabile dell’edizione americana del settimanale) e Adrian Wooldridge (firma della testata britannica ed ex responsabile della redazione di Washington), autori del vademecum The Right Nation. Why America is different, Prescott Bush apparteneva all’ala progressista del Gop: liberale in materia di politica interna, internazionalista su quella estera.
Il Connecticut invece era di stampo più conservatore, aveva messo al bando i profilattici e Bush era amico di Estelle Griswold, che aveva combattuto legalmente il bando degli anticoncezionali. Quando Joseph McCarthy, simbolo della lotta al comunismo degli Anni ’50 tra i confini statunitensi, partecipò ad un congresso del partito in Connecticut, Prescott commentò: «Non ho mai visto un tale branco di scimmie in tutti gli incontri ai quali ho preso parte».
Qualcosa però si stava muovendo. Il figlio George Herbet, nato nel 1924 in Massachusetts, altro stato del New England, nel 1959 si trasferì a Houston, in quella parte di Usa così diversa e lontana dalla porzione americana dove hanno base alcune delle università più prestigiose della nazione come Harvard o Yale e l’ambiente intellettuale che attorno ad esse ruota. Stavano sbarcando gli Yankee, attirati dalle possibilità economiche – prima fra tutte quella legata all’industria petrolifera – che offriva il Texas, ai tempi roccaforte democratica ma dai connotati decisamente conservatori.
Per quanto i texani nel ’64 si schierarono con Johnson, il nuovo corso lanciato da Goldwater aveva fatto breccia e nel 1966 George H. Bush ottenne un seggio al Congresso. Era contrario alla legge sui diritti civili di Johnson, al trattato sul divieto dei test nucleari, non vedeva di buon occhio il movimento di Martin Luther King, accusandolo di essere a libro paga dei sindacati. Sfidò Reagan in campo economico alle primarie del 1980 e quando otto anni dopo fu il suo turno, pare che i Repubblicani gli assicurarono lealtà solamente dopo l’ordine di scuderia impartito da Reagan stesso. Promise «nessuna nuova tassa», ma venne a patti con i Democratici alzandole e aumentando la spesa pubblica e facendo arrabbiare la base.
Petrolieri, legali, investitori in proprietà private, politici. Repubblicani. Ce n’è abbastanza perché la saga dei Bush sia spesso osservata attraverso le lenti del pregiudizio liberal e radical chic, culminato con la presidenza di George W. Bush. Ma evitando le polemiche sui conflitti in Afghanistan del 2001, all’indomani dell’11 settembre, e in Iraq del 2003, lasciando in pace la retorica dei Michael Moore e degli Oliver Stone, gli anni di George W. hanno riservato alla Right Nation, che recentemente si è in parte data appuntamento all’annuale Cpac (Conservative Political Action Conference) nuovi capitoli.
Due termini su tutti: i Neocon e il Compassionate Conservatism. Da una parte l’idea che la democrazia possa essere esportata – se necessario con l’azione militare -, coltivata in origine negli ambienti legati a democratici però disaffezionati con il loro partito e che trovò una sorta di precursore nel giovane John Fitzgerald Kennedy, il quale nel 1940 presentò un saggio dove criticava aspramente la politica di appeasement adottata da Francia e Gran Bretagna nei confronti di Adolf Hitler: il dibattito ha tenuto banco mentre Bush, Condoleeza Rice, Colin Powell e Dick Cheney si incontravano e scontravano sulle strategia da prendere per affrontare Al Qaida e Osama Bin Laden. Dall’altra la politica sociale per le fasce più deboli, specie all’interno del sistema scolastico come accaduto con il No child left behind act, programma governativo di aiuti per gli studenti disagiati che fu approvato nel 2001 con il voto bipartisan del Congresso. «Il governo», dichiarava Bush Jr., «non ha il monopolio della benevolenza».
Connecticut, Texas, Florida e di nuovo Texas. Nel 2016 Barack Obama lascerà la Casa Bianca e dopo le sconfitte rimediate prima da John McCain poi da Mitt Romney, i Repubblicani vogliono riprendersi Pennsylvania Avenue. Con chi? È presto per dirlo, ma circolano già alcuni nomi che qualcosa hanno in comune: Jeb Bush e Marco Rubio. Jeb è stato governatore della Florida dal 1999 al 2007, mentre Marco ne è senatore. Rubio percorre i passi del sentimento repubblicano cresciuto di anno in anno con l’amministrazione Obama: limitare l’azione del governo federale e la sua spesa, opporsi all’aumento del limite del debito nazionale, estendere il taglio fiscale varato da Bush, George W. Bush.
In attesa di capire se davvero papà Jeb tenterà di imitare zio George W. e nonno George H., George P. si rimbocca le maniche perché il Texas sia un posto ancora migliore dove «vivere, lavorare, mettere su famiglia». Come fece nonno George H.