I cattolici nel mondo sono un miliardo e duecento milioni di persone. Ormai meno di un terzo vive in Europa, il continente che è stato per millenni il centro privilegiato dei cristianesimo. E lo smarrimento suscitato dalla rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino (rinuncia “libera”, prevista dal Codice di Diritto Canonico, ma finora mai praticata negli ultimi sette secoli) ha comunque riacceso i riflettori sull’istituzione terrena più vecchia, l’unica che vive da duemila anni, che ha traversato nella Storia tante tempeste e che oggi si trova comunque ad una svolta.
Il Conclave che si aprirà tra pochi giorni sarà il primo a non dover elaborare il lutto dopo la morte di un Pontefice: semmai resta vivo e vitale il magistero non solo teologico e intellettuale (ma anche a suo modo di governo e di indirizzo della Santa Sede) con cui il papato di Ratzinger ha inciso forse più di quanto si immagini nel modo con cui la comunità dei credenti si è posta nei confronti di un complicato e spesso sfuggente mondo contemporaneo.
E’ comunque certo che, non solo per ragioni anagrafiche, finisce un’epoca che affondava le sue radici nelle meraviglie e nelle tragedie del Novecento. Chiunque sarà eletto al Soglio di Pietro non sarà più chi ha conosciuto la stagione dei totalitarismi e che abbia vissuto in prima persona la straordinaria avventura del Concilio Vaticano II, quella atmosfera irripetibile di speranza e di attesa fiduciosa poi sfrangiatasi nei decenni tra fughe in avanti, aperte contraddizioni e non poche disillusioni.
Anche la Chiesa adesso si ritrova più esposta che mai al frastuono mediatico, all’immersione piena nella comunicazione globale che ha mutato l’intero pianeta al cambio del Millennio. E l’obbligo di trasparenza diventa sempre più un passaporto indispensabile per la credibilità. Proprio quando sul terreno “ideologico” appare sempre più radicale il conflitto tra la proclamazione di una verità assoluta (che è il mandato ricevuto da Cristo fondatore) e il relativismo dottrinario ed etico che segna la cultura dominante in Occidente con punte di un obbligato conformismo. Ma per continuare ad avere piena cittadinanza nel discorso pubblico all’annuncio cristiano serve un supplemento di aperta purificazione. La vicende opache dello Ior oppure il groviglio di potere mondano sotteso alle vicende di “Vatileaks” appaiono non più circoscrivibili negli “arcana imperii” connaturati a una gerarchia comunque di governo.
D’altronde proprio Papa Ratzinger è stato nei suoi pochi anni di regno il più esplicito nel denunciare la “sporcizia” nella Chiesa, gli scandali e i carrierismi che ne “deturpano” il volto. E l’energia con la quale ha affrontato e condannato le turpi vicende della pedofilia è stata la prova di una sensibilità profonda a non transigere sulle debolezze e i peccati degli uomini chiamati ad una speciale responsabilità di pastori del gregge cristiano. Sono una cinquantina i vescovi a vario titolo “dimissionati” nel corso di questi anni, di qualsiasi tendenza o schieramento. E colpisce, quasi come una nemesi storica, che proprio i cardinali adesso più esposti e “chiacchierati” sugli abusi sessuali e il loro insabbiamento (lo scozzese di Edimburgo, O’Brien, che addirittura non parteciperà al Conclave, l’ex di Los Angeles, Mahony, e di Bruxelles, Danneels) appartenessero esplicitamente tutti all’ala più innovatrice che si riconosceva nell’autorità morale di Carlo Maria Martini.
Anche la storica distinzione, così cara all’universo mediatico, tra progressisti e conservatori, suona ormai per il Sacro Collegio e per l’intera Chiesa come un residuo del passato, senza più un autentico significato. L’inattesa rinuncia di Benedetto XVI ha cambiato radicalmente il quadro statico di riferimento e aperto il vero dilemma del nostro tempo. Se cioè Papa Ratzinger sia stato il saggio “curatore fallimentare” di una religione al tramonto, in un mondo già ammalato dalla “eclisse di Dio” oppure l’intelligente “traghettatore” verso una nuova stagione che riproponga la necessità di Dio e della sua rivelazione a una umanità disorientata e comunque in ricerca di senso, con un vigore e una forza che non era più in grado di assicurare.
L’affetto e il calore con cui il popolo cattolico ha salutato il Padre alla fine del suo tragitto sembra propendere per la seconda interpretazione. Perché il miliardo di cattolici (oltre gli almeno altrettanti di altre confessioni cristiane, e perfino le altre religioni più diffuse) guardano adesso a Roma e al Conclave imminente con l’aspettativa comune di un risultato sorprendente, di una scelta a suo modo “rivoluzionaria”, che rifletta insieme l’universalità della Chiesa e la serenità di una guida sicura nelle tempeste di oggi e di domani.
D’altra parte senza andare troppo lontano nel tempo è quanto avvenuto nel 1978. Se si permette una memoria personale chi qui scrive era da poco al Corriere della Sera. E avendo studiato prima, da giovane storico, negli Archivi vaticani, era stato subito comandato nella “task force” giornalistica che seguiva i tre Papi di quell’anno straordinario. E rammenta vividamente la sensazione di sorpresa mondiale quando nella serata del 16 ottobre si conobbe il nome del nuovo Pontefice, un nome che tra l’altro appariva pressocchè impronunciabile.
“Che scherzo da prete…” fu il disincantato commento, tra l’ammirato e il cinico, con cui venne salutata nel tempio laico dell’informazione l’elezione dell’arcivescovo di Cracovia, l’allora cinquantottenne Karol Wojtyla, una scelta così inattesa che aveva lasciato l’intero mondo senza respiro. Il primo Papa non italiano dopo più di quattro secoli (l’ultimo era stato l’olandese Adriano VI, quello che aveva messo le mutande ai dipinti di Michelangelo nella Cappella Sistina) il polacco che aveva vissuto nella sua carne prima il tallone nazista e poi la dura repressione dei regimi comunisti. Si era ancora nel pieno della “Guerra Fredda”, con il mondo diviso tra Est ed Ovest e la Chiesa sceglieva un campione della battaglia di libertà contro l’ultimo totalitarismo ancora forte e autoritario. Wojtyla, con la sua storia e la sua vicenda, toglieva ogni alibi al mito comunista (così ben coltivato ed edulcorato dall’intellighentsia occidentale) e apriva la strada al crollo del Muro di Berlino.
Non solo: riportava il messaggio cristiano ad una capacità carismatica di parlare (e di essere ascoltati) a grandi folle, in particolare alle generazioni più giovani, smarrite nel riflusso negativo post-’68. La scossa di speranza che sapeva trasmettere prima da “atleta di Dio” e poi fino alla testimonianza conclusiva della sofferenza e dei dolori dell’uomo, Giovanni Paolo II ha segnato per più di un quarto di secolo la storia umana fino all’ingresso del nuovo Millennio, costringendo i potenti della Terra a fare i conti con la forza spirituale del Cristianesimo.
Più che uno “scherzo da prete” allora si era manifestato uno “scherzo dello Spirito Santo”. E forse l’attesa che oggi attraversa il popolo dei credenti (ma anche la curiosità e l’interesse di chi credente non è) è quella, quasi messianica, di trovarsi di fronte a un nuovo profeta che venga da lontano. E forse, più da lontano viene, più può affrontare con vigore e autorevolezza la crisi di fede che svuota un’Europa stanca e scettica come non mai. E’ la “nuova evangelizzazione” già individuata da Ratzinger e che può essere vissuta ancora una volta partendo da lontano. Perché, come spiega con acume il giovane primate d’Ungheria e presidente dell’episcopato europeo, il cardinale Peter Erdo, «l’Europa troverà nuova linfa spirituale nella generosa accoglienza in questa terra dei tanti cristiani del resto del mondo perseguitati e minacciati soltanto per la loro fede».