L’improvvido messaggio di congratulazioni per l’elezione a Pontefice indirizzato all’arcivescovo Angelo Scola dalla Conferenza episcopale italiana, è forse la prova più lampante di quanto l’elezione dell’argentino Jorge Mario Bergoglio abbia preso in contropiede molti, anche dentro la Chiesa e ai suoi stessi vertici.
Nella serata di ieri infatti è arrivato un primo comunicato della Cei nel quale si leggeva: «‘Gioia e riconoscenza’. Il Segretario Generale (monsignor Mariano Crociata, ndr) esprime i sentimenti dell’intera Chiesa italiana nell’accogliere la notizia dell’elezione del Card. Angelo Scola a Successore di Pietro».
Seguivano parole di augurio e obbedienza. Tanto era attesa l’elezione dell’arcivescovo di Milano che alla fine, per errore, è partito il testo sbagliato; subito dopo, naturalmente, è stato corretto, ma il danno ormai era fatto. Anche perché in un certo modo, involontariamente, il testo della Cei spiegava anche chi era il grande sconfitto di questo conclave.
I timori della vigilia, dunque, per il candidato italiano si sono concretizzati. Il fatto di essere vissuto come un uomo ancora troppo legato a Comunione e liberazione di certo non l’ha aiutato. La crisi di Cl, intesa come struttura ampia e articolata che comprende varie ramificazioni in campo sociale, economico e sanitario, in particolare in Lombardia, ha toccato anche Scola la cui biografia ecclesiale s’incrocia con quella dello stesso don Giussani, fondatore di Cl. Ma ovviamente ad aver influito di più sul risultato negativo sono le vicende che riguardano l’uomo forse più rappresentativo e noto di Cl in questi anni, vale a dire l’ex governatore della Lombardia Roberrto Formigoni.
Da parte di diversi porporati è stata espressa più di una riserva proprio su questi aspetti; il timore era infatti quello di ritrovarsi con un Papa coinvolto con le convulsioni della politica italiana e per di più con una delle organizzazioni cattoliche che più si sono impegnate in quest’ambito e in modo dichiaratamente di parte, schierandosi cioè a lungo a fianco di Silvio Berlusconi. Negli ultimi mesi però un dibattito intenso ha scosso anche Cl circa il senso dell’esperienza compiuta a livello di governo e di partecipazione alla vita economica, e però non è bastato a convincere i 115 elettori che quel legame fosse spezzato.
D’altro canto va ricordato ancora una volta che gli stessi cardinali italiani erano divisi fra di loro in varie cordate contrapposte l’una all’altra, cosa che ha amplificato la diffidenza dei porporati del resto del mondo verso l’ipotesi di un Papa che arrivasse dalla diocesi di Milano.
Se tutto questo è vero, l’impegno dei cardinali americani per l’elezione del primo papa argentino va comunque considerato decisivo. In qualche modo tale ruolo è stato già rivendicato dall’arcivescovo di New York Timothy Dolan che ha parlato esplicitamente della gioia dei grandi elettori d’oltreoceano per la vittoria di Bergoglio.
Un contributo importante anche numericamente è poi venuto dai cardinali latinoamericani, 11 in tutto, che hanno appoggiato in gran numero il futuro Papa Francesco. Da questo punto di vista le parole di Claudio Hummes, francescano, ex arcivescovo di San Paolo del Brasile, sono state decisive. Hummes ha criticato la candidatura del suo successore Odilo Sherer, giudicato troppo conservatore e «non amato dal suo popolo» e ha spostato l’appoggio dei porporati brasiliani sull’argentino.
Va poi tenuto presente il gruppo dei cardinali spagnoli che comunque potevano votare un Papa di lingua spagnola, cosa non secondaria considerati i profondi rapporti fra la Spagna e l’America Latina. L’arcivescovo di Barcellona, Lluis Martinez Sistach, ha twittato un messaggio abbastanza chiaro: «Noi cardinali abbiamo scelto papa Francesco, grazie Spirito Santo per la tua azione e grazie al popolo di Dio per le sue preghiere». Quasi una dichiarazione di voto.
E poi non va sottovalutato l’intervento di Barack Obama di ieri; a conclave in corso, Il presidente degli Stati Uniti, che certo misura ogni parola pronunciata in pubblico, ha detto a un certo punto: «Un Papa americano non prenderebbe ordini da me». Certo il primo riferimento era all’ipotesi del Pontefice a stelle e strisce, ma in realtà la dichiarazione di Obama aveva un significato più ampio: il papato può varcare l’oceano, la Casa Bianca resta entro i suoi confini senza invasioni di campo.
È stato un viatico importante, forse concordato in anticipo con i cardinali americani. D’altro canto altri due elementi vanno considerati: appena eletto Bergoglio il capo della Casa Bianca ha espresso la sua gioia e le sue congratulazioni al nuovo Papa; in secondo luogo sarà il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, cattolico, a guidare la delegazione degli Stati Uniti alla messa d’insediamento di Francesco il prossimo 19 marzo.
E poi va sottolineato il lavoro svolto da alcuni porporati statunitensi come l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede William Levada, che ha cercato di convincere diversi cardinali extraeuropei della necessità di esprimere un voto di cambiamento.
Il desiderio di portare la Chiesa oltre i confini dell’Europa, la crisi della curia romana, la litigiosità degli italiani, l’urgenza di affrontare l’evangelizzazione nei continenti e nei Paesi che stanno vivendo trasformazioni sociali ed economiche eccezionali, sono poi i fattori che, a livello più generale, hanno contribuito a determinare un risultato che ha sorpreso tutti.