Cominciano stamattina, con l’insediamento alle Camere dei nuovi eletti, i lavori della diciassettesima legislatura. La delicatezza del passaggio storico è nota a tutti: un grande stallo politico esacerbato dal pareggione elettorale che rende complicata qualsiasi nomina al vertice delle istituzioni, l’indebolimento dei partiti maggiori (Pdl e Pd) intorno a cui si è costruito il bipolarismo muscolare della Seconda Repubblica, la coda finale del governo tecnico guidato da Mario Monti, le tensioni sul nostro debito sovrano, la forte crisi economica che sta vivendo il paese, acuita da venti anni di non riforme, fino all’esplosione del movimento di Beppe Grillo, nato e cresciuto sull’onda delle proteste “anti casta”, lucrando sullo scollamento ormai enorme tra i palazzi del potere e il paese reale.
Proprio il Parlamento è da sempre, non solo simbolicamente, il luogo in cui potere pubblico e cittadinanza trovano una loro sintesi, una loro fusione e una corretta rappresentanza. Nei momenti migliori della storia repubblicana, le Camere hanno saputo esprimere, attraverso gli eletti, le domande, le ansie, i cambiamenti e le contraddizioni della società italiana. Quel che avveniva nelle viscere del paese, in qualche modo trovava una sua traduzione politica, almeno parziale, dentro le aule del Parlamento.
Negli ultimi anni questa funzione si è andata via via sbiadendo. Per vari motivi. Una legge elettorale che trasforma gli eletti in nominati al soldo delle segreterie di partito; una costituzione materiale che sposta sempre più peso, funzioni e responsabilità verso il potere esecutivo svuotando il ruolo del legislativo; una qualità media di onorevoli e senatori sempre più scolorita, e soprattutto, lo vogliamo dire con franchezza, l’andazzo deplorevole di considerare l’appartenenza alle Camere come un passatempo tra gli altri. Un intermezzo tra altri mestieri, per cui si scende a Roma a pigiare il bottone e poi via, si rientra a casa e alle proprie faccende principali: chi per continuare a fare il sindaco, chi il presidente del consorzio x, chi il manager della società y, chi il consigliere di amministrazione dell’azienda z e chi per lavorare nel suo studio di avvocato, notaio, commercialista o banalmente nella sua farmacia.
Il parlamentare è un mestiere serio e totalizzante, per gli anni in cui si decide di farlo. Serve il tempo pieno, non il part time: per poterlo fare davvero bene, per ragioni di trasparenza e di potenziale conflitto di interesse, nel caso di molti professionisti che tornano a Roma o entreranno per la prima volta in Parlamento (anche ad esempio con la lista Monti) e per questioni di rispetto nei confronti dei cittadini che ti affidano il mandato di rappresentanza. Questa dovrebbe essere la regola aurea. Nei grandi paesi funziona così: ci si sospende pro tempore dai vecchi incarichi.
Questa regola deve valere ancora di più ai tempi di Beppe Grillo e della protesta “anti casta”, i cui i palazzi del potere sono percepiti non a torto lontani, arroccati, distanti. Non c’è come trattare la casa degli italiani, cioè le Camere, alla stregua di un grand hotel da cui si entra e si esce a piacimento, nei ritagli di tempo, per alimentare e consolidare populismo e demagogia.
Per questo vigileremo sui nuovi parlamentari che stamattina s’insediano alle Camere, e denunceremo di volta in volta la piaga dei doppi incarichi, della politica part time, fatta nei tempi morti tra un consiglio di amministrazione, una udienza in tribunale e una giunta di paese. Andremo a vedere caso a caso chi sospenderà le proprie attività private e chi, invece, continuerà come niente fosse. Se anche la legge in molti casi non vieta i cumuli, dovrebbe imporlo il buon senso, la serietà, il senso del reale e il rispetto per la casa in cui si entra. La casa degli italiani. Ai tempi di Beppe Grillo.