Nel suo ufficio al 270 di Park Avenue, Manhattan, lui sta aspettando. È nervoso. Ha chiesto alle sue tre assistenti di non passargli telefonate. Per nessun motivo vuole parlare con il mondo esterno. Sa che ciò che succederà fra poco minerà la sua credibilità alle fondamenta come mai prima. Lui sa di essere passato indenne alla crisi. Lui è consapevole di aver fatto di tutto per imbrigliare il caos, per renderlo creativo. Eppure sa che la gente, Main Street, non capirà. Anzi, gli darà contro. Lo insulterà, lo considererà come un ladro, un inetto. E lui questo non può tollerarlo. Ma sa che anche questa volta, dopo la caduta, tornerà in piedi. La sua banca un po’ meno, forse. Jamie Dimon è pronto a ricevere l’ultimo rapporto del suo principale nemico, Carl Levin. Da una parte il banchiere più potente di Wall Street, numero uno di J.P. Morgan. Dall’altra il senatore democratico a capo della sottocommissione permanente sulle indagini del Senato Usa, che ha aperto un’inchiesta sulla perdita da oltre 6 miliardi di dollari ore registrata dalla banca di Dimon l’anno scorso per via di alcuni trade troppo spinti. In mezzo, l’intera industria finanziaria americana, di cui J.P. Morgan rischia di essere la pietra tombale.
Tutto ruota intorno a Bruno Iksil. Da oscuro trader degli uffici londinesi di J.P. Morgan, Iksil è diventato “The London Whale”, la balena di Londra. Con quasi 6,3 miliardi di dollari, le perdite provocate dalla “London Whale” sono fra le maggiori di sempre in ambito finanziario. Trade spericolati, quasi folli. «Nessuno poteva pensare che fossero così assurdamente rischiosi», scriverà un trader di Morgan Stanley a un suo amico proprio di J.P. Morgan una volta emerso lo scandalo.
Jamie Dimon più volte ha detto che lui era all’oscuro di tutto. Lui si, ma i suoi collaboratori no. O meglio, alcuni di essi no. Troppo strani erano sembrati alcuni movimenti di Iksil, alcune frasi. Come riporta a Linkiesta uno dei suoi compagni di desk nel periodo londinese, Bruno non era il classico dei trader. Nonostante parlasse poco, ogni tanto si lasciava andare. «Un giorno disse che aveva fame, tanta fame, ed era per questo che era stato preso a J.P. Morgan», dice l’ex collega. Una condizione comune a tanti giovani trader, quella della fame. Che sia voglia di riscatto sociale o semplice desiderio di appagare le voglie più recondite, chi decide di intraprendere questa strada lo fa non perché vuole cambiare il mondo, bensì perché vuole goderselo. Tutto, a spron battuto, senza rimpianti. Il problema è quando si fa il passo più lungo della gamba. E Bruno si è gettato direttamente nell’abisso. Con lui, ha trascinato anche il resto della banca.
«No, io non vorrei presentarmi come un ladro comune di fronte a Levin. Ho una dignità! Questa banca ha una dignità! Ma se è questo ciò che serve, io andrò». Le parole di Dimon alla vigilia del primo incontro con il Senato testimoniano due elementi del carattere del banchiere più potente di Wall Street. Il primo è il suo egocentrismo, talmente elevato da sembrare spocchia. E forse lo è. Dimon sa di essere bravo. Sa di essersi fatto da solo. Sa che lui è un banchiere con rilevanza sistemica. «Quando tutto va male nella tua banca, basta chiamare Dimon», scrisse il New Times l’indomani del salvataggio di Bear Stearns, uno dei primi colossi di Wall Street a cadere sotto il peso di quei mutui troppo rischiosi che sembravano innocui chiamati subprime.
Da salvatori di Wall Street, gli uomini di J.P. Morgan sono diventati gli sciocchi di turno. Colpa della “London Whale”. Colpa di quei 6,3 miliardi di dollari di perdite non contabilizzate semplicemente perché non viste dai vertici. «Queste operazioni sono state nascoste alle autorità!», ha tuonato Levin di fronte a Ina Drew, ex chief investment officer della banca, e Doug Braunstein, numero uno della divisione investment banking del colosso di Wall Street. Levin forse aveva ragione. La sistematicità delle operazioni condotte da Iksil nei book di J.P. Morgan lascia intendere che qualcuno sapesse. Ma chi?
«Sicuramente Drew era a conoscenza delle posizioni prese dall’ufficio di Londra». A dirlo a Linkiesta è un altro ex collega di Iksil, che spiega come «ogni giorno» avevano l’obbligo di riportare ogni singola operazione effettuata in nome e per conto della banca. «Il monitoraggio era, ed è, serrato», dice il trader, ora in un’altra grande banca d’investimento statunitense. In pratica, ogni qualvolta che un trader accede alla propria postazione deve effettuare un log-in, che è praticamente impossibile da evitare. Da quel momento, si è liberi di operare: «È come il sistema anti-sbandamento nelle auto: quando esci dai binari, ti avvisa e ti rimette in carreggiata. Certo, poi puoi aggirare i sistemi…». Ed è proprio qui che ha agito Iksil. Lavorando di fino, ha creato un conto virtuale all’oscuro dei suoi superiori e ha iniziato a tradare. Fino a quando non è stato scoperto. «Molto spesso accade che quando si fanno delle operazioni così spinte, ma si è in attivo, i supervisori chiudano un occhio», dice l’ex trader. Peccato che poi si palesi il cigno nero, l’evento che nessuno dei sistemi di rischio aveva calcolato. Per Iksil, che aveva investito ingenti somme sul Markit CDX North America Investment Grade Series 9 10-Year Index, nome in codice CDX IG 9, un indice basato su Credit default swap (Cds), i derivati che fungono da assicurazione contro il fallimento di un asset. Morale della favola? I 6,3 miliardi di dollari, più la rottura del vincolo di fiducia fra molti clienti e la banca di Wall Street. Il tutto senza contare il danno d’immagine per il Golden boy di New York, Jamie Dimon. Anche lui sapeva. Ma ha dovuto mentire, fare finta di non sapere nulla, perché stava cercando di trovare una soluzione per evitare un’epidemia dentro la sua banca, il suo regno. Tre mesi, pare, ci ha messo prima di sputare il rospo. Per tre lunghi mesi ha applicato alla lettera il manuale interno di gestione delle criticità: «Silenzio estremo, massima operatività, contingentamento del problema». Ci è riuscito in parte.
L’effetto più grande si avrà però sull’intero modello di business delle banche statunitensi. Come ha scritto due giorni fa Simon Johnson sul New York Times il tempo del Too-big-to-fail, le banche troppo grandi per fallire, è finito. Non per merito della riforma finanziaria voluta dal presidente Barack Obama, più efficace sulla carta che nella realtà. Non per merito della Volcker rule, desiderata dall’ex governatore della Federal Reserve Paul Volcker al fine di rompere il circolo vizioso fra attività di trading e attività bancaria tradizionale. Stop al proprietary trading, la negoziazione in contro proprio. Come se fosse quello il problema. No. Il merito è forse proprio di Jamie Dimon. Forse solo così ci sarà il giusto cambiamento di mentalità da parte dei banker. Una volta che tocchi il fuoco e rimani bruciato irrimediabilmente, ci pensi due volte prima di fare di nuovo lo stesso errore.
Il 15 marzo 2008 il mondo ha scoperto la fragilità di Bear Stearns. Il 15 settembre 2008 ha scoperto la precarietà di Lehman Brothers. Il 13 aprile 2012 ha scoperto che, a cinque anni di distanza dal disastro subprime, nemmeno la più potente delle banche di Wall Street è immune. Anzi, è ancora più grande e vulnerabile che nel passato. Complici le varie acquisizioni fatte per «salvaguardare il sistema», che disse Timothy Geithner, allora a capo della Fed di New York, una volta che J.P. Morgan si fece carico di Bear Stearns. «Non la volevo, non era sostenibile quella operazione», si fece scappare Dimon qualche anno più tardi. Aveva ragione. Quell’acquisizione appesantì J.P. Morgan, che poi si dovette prendere anche Washington Mutual, il supermercato dei servizi bancari statunitensi dove tutti potevano avere un prestito o un mutuo. Un gioco troppo bello per poter essere vero. Infatti, WaMu crollò pochi giorni dopo Lehman Brothers. Nacque quindi quel gigante, dai piedi sempre più d’argilla, che è oggi J.P. Morgan. Troppo grande per fallire, troppo grande per essere salvata, troppo pericolosa in caso di crisi. Complice la crisi subprime, e la spirale della morte dei bonus che non bastano mai, i profitti calano e le attività a rischio aumentano. Chi non risica non rosica. E allora via con il prop trading, utile per tornare in fretta ai livelli pre-crisi. Poco importa dei danni collaterali. Quelli, alla fine, ci sono sempre.
Il colosso fragile che è oggi J.P. Morgan è l’emblema dell’universo bancario mondiale. Zombie carichi di asset illiquidi che vagano perdendo i pezzi in giro per il mondo. Come un blob che ingloba tutto ciò che incontra sul suo cammino alla ricerca di alimenti, di ossigeno per continuare a vivere. La liquidità. Tutto ruota intorno a lei. Se ne hai, vai avanti. Se sei a secco, puoi durare poco. Ecco perché esistono stampelle esterne, come il sistema bancario ombra, composto dagli intermediari finanziari non bancari, o Non-bank financial intermediaries (Nbfi). Un universo che, secondo il Financial stability board (Fsb), nel 2007 vale 62.000 miliardi di dollari e che nel 2011, ultima rilevazione disponibile, valeva 67.000 miliardi. Tanto, forse troppo. Eppure sono numeri che non spaventano gli addetti ai lavori. Almeno fino a quando non vengono toccati dal mostro che loro stessi hanno creato. Almeno fino a quando, come scriveva Friedrich Nietzsche, non guardi dentro l’abisso. Dopo, sarà l’abisso a guardare dentro di te.
Nell’immagine dorata di Dimon non dovevano esserci due cose: le menzogne inutili e l’ira. Le prime perché ogni tanto la verità va celata, ma solo quando è funzionale. Non quando tutti sanno tutto e rischi di mettere a repentaglio un’intero sistema, come avvenuto nel caso di Iksil. Corre voce fra i banker di Londra e New York che oramai la carriera di Dimon sia finita. Specie dopo le accuse, pesanti, di Levin e del Senato Usa. Probabilmente non è vero che sia arrivato al capolinea, ma se due indizi fanno una prova, si deve leggere con un occhio particolare ciò che è successo all’ultima edizione del World economic forum di Davos. Durante una festa privata Dimon è andato su tutte le furie per futili motivi, un comportamento che non è passato inosservato ai presenti. Fra questi, c’era anche Lloyd Blankfein, il numero uno di Goldman Sachs, che rideva sornione. Il secondo indizio, pochi giorni fa. Durante una cena fra colleghi, raccontano i bene informati, ha pesantemente insultato un cameriere sbadato che, versando il vino, gli ha macchiato la camicia. «Si è dovuto scusare con il cameriere e con tutta la sala, visto che ha dato in escandescenza in modo piuttosto evidente», dice uno degli astanti. Di certo, non un comportamento da Dimon.
Ascesa e declino di una grande banca e di un grande banchiere? A Wall Street giurano che sia J.P. Morgan sia Jamie Dimon sono ancora forti. Forse indeboliti, ma ancora in grado di essere al centro degli affari più importanti, sia sul versante economico-finanziario sia su quello politico. L’affaire Iksil ha colpito nel profondo la banca, minando la sua credibilità, quella di Dimon e di tutto il sistema. Il tempo passa, la gente dimentica. E come diceva Antoine-Laurent de Lavoisier «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Del resto, J.P. Morgan pochi giorni fa ha vinto uno dei premi più ambiti in ambito bancario, il “Best crisis management” di IR Magazine. Il motivo? La gestione dello scandalo “London Whale”.