Scontento, a tratti disilluso, Mario Monti si guarda intorno e non si riconosce più negli uomini, nei modi, e nelle miserie del suo movimento in difficoltà: dentro Scelta Civica, partito fermo sulla battigia sconfortante del dieci per cento, ormai si combatte alla morte per dividersi le spoglie del poco che rimane, per un incarico da capogruppo (ma di un gruppo in disfacimento), per una poltrona da coordinatore (ma di un coordinamento che nemmeno esiste più), per una vicepresidenza poco più che onorifica.
Gli uomini di Luca Cordero di Montezemolo contro i cattolici di Andrea Riccardi, Andrea Romano contro Lorenzo Dellai, Carlo Calenda contro Andrea Olivero e i sopravvissuti dell’Udc – partito già evaporato per i fatti suoi – che osservano le liti e rimangano fermi, coltivando quell’intelligenza dello sgranocchiamento, del restare sempre a galla, di cui Pier Ferdinando Casini è maestro assoluto. «Non è Scelta civica, questa è Scelta cattolica», dice per esempio Pier Camillo Falasca, dell’ala liberale del gruppone montiano. Questo pomeriggio in una lunga riunione si sono scontrati ancora per eleggere il capogruppo alla Camera, alla fine l’ha spuntata l’ex democristiano Dellai, ma a nervi tesi, con gli occhi e la voce che si indurisce, parole pesanti: «Tu non puoi vantare la storia di impegno civico che vantiamo noi». «Tu, tu, tu, tu». I montezemoliani si sentono sottorappresentati, vogliono più spazio nel micro-partito e soprattutto non vogliono essere guidati dai cattolici – «altrimenti mi sarei iscritto a Sant’Egidio», dice Giuliano Cazzola.
Insomma, tutti sembrano già guardare altrove, eppure nessuno si muove, come per una strana famelica inerzia: tutti restano lì dove sono, armati e combattivi gli uni contro gli altri per agguantare un piccolo incarico, un pennacchio colorato, una medaglietta, una poltroncina del partito che non c’è e che forse il professore non vuole più. Da alcuni giorni Monti non partecipa infatti nemmeno alle riunioni, e quando gli è stato chiesto cosa pensasse e chi, secondo lui, dovesse fare il capogruppo, il professore si è limitato a fare spallucce. Come dire: che ci faccio qui?
Domani mattina Scelta Civica dovrà riunirsi per decidere come comportarsi alle consultazioni, quando saranno chiamati al Quirinale da Giorgio Napolitano. Monti ci sarà per forza e dovrà utilizzare tutte le capacità persuasive che gli restano per mettere d’accordo tra loro quelli che un tempo sono stati “i montiani”, cioè un corpo apparentemente unico, quelli stessi uomini che adesso non sanno bene nemmeno come comportarsi di fronte all’eventualità di un governo guidato da Pier Luigi Bersani. Perché i montezemoliani attaccano il centrosinistra in pubblico, ma in privato sembrano i più inclini a sostenere un governo a guida Pd; mentre i cattolici di Riccardi – che hanno perso l’attenzione delle gerarchie ecclesiastiche – si presentano pubblicamente come i pontieri di nuovo centrosinistra, ma in privato sono pieni di dubbi e timori.
E dunque in Scelta civica ci sono più incarichi che iscritti, più generali che soldati, più medaglie che eroi, quasi più dirigenti che elettori, con il professor Monti che ormai osserva questo suo piccolo mondo disfatto con lo sguardo perso della vittima, della carcassa spolpata, perché è del suo prestigio nazionale ed internazionale che tutti si sono nutriti, ed è attorno al suo ormai periclitante prestigio che ancora volteggiano affamati. Solo Pier Ferdinando Casini resta fermo e non partecipa (non ancora) della spartizione delle spoglie, lui che di cadute ne ha viste di ben più fragorose non si impressiona, non ha fretta, attende il momento opportuno e dunque adesso dice che «bisogna restare fermi, bisogna aspettare che prima si consumino tutte le tragedie». Ma la tragedia si consuma lentamente, e anche un po’ nell’ombra, nella miseria, negli angoli bui dove adesso improvvisamente esplodono tutti i rancori fino a ieri a stento sopiti, dove si lanciano accuse e si consumano processi sommari costruiti sui sussurri e sulle malizie, sull’acidità della sconfitta.
E nessuno viene risparmiato, nemmeno gli uomini più vicini a Monti e nemmeno il professore stesso («ha sbagliato tutto, tutto, tutto»). Così cade, nella resta dei conti intestina, anche Federico Toniato, il giovane segretario generale di Palazzo Chigi, l’ambasciatore dei negoziati più delicati del professore, il suo grand commis: «È lui ad avergli suggerito tutte le mosse sbagliate, come l’assurda candidatura al Quirinale e al Senato – dicono gli uomini di Montezemolo – È lui che tentava di farci votare Renato Schifani». Persino la signora Elsa, la moglie del professor Monti, viene tirata dentro e senza nessuna cautela: «È lei che ha vellicato la vanità di Monti, più di chiunque altro». Insomma non c’è una via d’uscita pulita, netta, e la crisi del montismo si avvita così, miseramente, in un cannibalismo senza grandezza, in una tragedia senza lirismo.