Beppe Grillo è una vecchia lenza di 65 anni, frutto della stagione creativa del ’68. Nella sua lunga carriera di uomo di spettacolo ha tirato fuori il meglio di una “vis comica”, espressa con l’inventiva di una torrenziale affabulazione e insieme di una mai abbandonata frequentazione dell’intelligente ironia, spinta fino al sarcasmo nella forma spesso urticante dell’invettiva.
I giullari nella Storia hanno sempre avuto la franchigia di “dire la verità” sul potere, per scomoda che fosse, purchè strappasse una risata, di volta in volta amara o liberatoria. E su questa arte da giullare, coltivata da sempre (anche se con un surplus di decibel), Grillo si è costruito un patrimonio di credibilità, ben speso nelle assemblee degli azionisti di Telecom o di Parmalat – e pure del Monte dei Paschi – apparendo a buon diritto come difensore dei “piccoli”, di quelli che non trovavano voce.
E, nel corso degli anni, ha finito per costruirsi una filosofia politica del tutto originale, assemblando in maniera a volte contraddittoria ma a suo modo efficace, un sincretismo di tante bandiere trascurate dagli attori anche mediatici del Palazzo. Dall’ambiente alle energie rinnovabili alla decrescita sostenibile fino alla guerra alle banche e alla finanza, la critica all’Europa e a tutte le caste della politica, la tutela delle ragioni del lavoro e della piccolissima impresa (e l’elenco è ben più lungo) si è edificato un “corpus” di progetto politico che ha una sua intima coerenza e un suo indubbio fascino.
Altrimenti non avrebbe avuto quello straripante consenso elettorale che pone il Movimento 5 Stelle come primo partito del Paese. Certo, c’è stata in gran parte l’onda alluvionale di una protesta diffusa e di una voglia di cambiamento che non trovava altri canali di espressione democratica. Eppure la contestazione al Sistema si è innestata su una tenuta di fondo costruita con pazienza nel corso degli anni e amplificata dalla Rete, dalle sue potenzialità, ma anche dalle sue semplificazioni a volte tremende.
Non è difficile immaginare che oggi Grillo, dopo la controversa vicenda delle Presidenze della Camere, viva insieme una privata soddisfazione e contemporaneamente l’angoscia di una compattezza da ottenere dai suoi gruppi parlamentari francamente eterogenei e dalla imprecisa identità. Il ghigno di soddisfazione sta nell’aver imposto con il voto all’arcipelago della sinistra la propria indiscussa “egemonia culturale”. Che cos’altro non è l’aver obbligato Bersani agli otto punti programmatici omogenei alle scelte del Movimento oppure averlo costretto (senza bisogno di Renzi) ad una auto-rottamazione di personalità sperimentate dalle cariche istituzionali, per mendicare nel segreto dell’urna quel pugno di voti indispensabili per il Senato. E l’egemonia sta pure nel fatto di avere smosso il più immobilista e statalista dei partiti, tirandolo per i capelli ad intestarsi (e a rivendersi come autonoma e propria) ogni forma dell’innovazione applicata ai riti della politica.
Non mancheranno certo i fuochi d’artificio quando si arriverà alla formazione di un governo purchessia. C’è da attendersi infatti una compagine “Beautiful” , carica di “gente che piace” alla “gente che piace” del ribollente e frastagliato universo genericamente di sinistra, tanto da indurre ancor di più in fortissima tentazione l’armata dei neofiti del Parlamento. E che dimostrerà le straordinarie doti camaleontiche del Pd, pronto a lasciar impallidire completamente le proprie identità pur di rabberciare una maggioranza per la fiducia all’esecutivo.
Lo sgretolamento è in prospettiva nel novero delle cose possibili, anche perché il Pd ha sufficiente esperienza per conquistarsi in varie forme gli eletti, visto che non è riuscito a persuadere gli elettori. Per questo Grillo, che non è certo uno sprovveduto, è tenuto per forza di cose a privilegiare la compattezza dei gruppi, costi quello che costi, compresa la ruvida durezza del “Conducator”. D’altra parte sa bene che le seduzioni del Palazzo possono diventare irresistibili, soprattutto quando la politica è vissuta come appendice della società mediatica dello spettacolo.
Lo “scouting” (per carità, non lo si chiami “campagna-acquisti”, quella è una volgarità che va bene solo per Berlusconi) è partito un minuto dopo la chiusura delle urne. E c’è, lontano e negato, il precedente della Lega delle origini, piombata a Roma con intenti rivoluzionari e poi, nel giro di vent’anni, ammorbidita e insabbiata nelle mollezze romane (dalle alcove, ai traffici, ai lussi, alle comode nicchie che il Palazzo sa sempre allestire di buon grado per spegnere piano piano i fuochi del cambiamento).
A quell’epoca lo stesso Grillo, anche per parlarne male nei suoi spettacoli, si era spesso “annusato” con il Carroccio, incuriosito di quel sangue giovane che rompeva gli schemi della Prima Repubblica e attirato da un’anima sinceramente popolana che la Lega sapeva interpretare in solitudine. E ci sono tracce antiche e corpose di colloqui scapigliati e scanzonati del comico genovese con un Maroni non ancora transitato dal cursus honorum istituzionale. Come quella prima Lega ruspante e autentica, la forza determinante di un diversissimo Movimento 5 Stelle sta nella coesione interna e nell’unità di azione politica nelle aule parlamentari, se appena vuole avere un futuro e incidere davvero nel corpaccione obeso e sprecone dello Stato.
L’incognita reale è il tasso di identità del Movimento e il suo più o meno profondo patriottismo di appartenenza. E se vuol essere levatrice di un nuovo modo di far politica, la guida carismatica sa benissimo di dover tutelare ad ogni costo la diversità dei rappresentanti, di respingere ogni contaminazione, di imporre forzature sgradite al resto del ceto politico, come l’abolizione del finanziamento pubblico o l’autoriduzione sistematica di prebende e indennità. In questa fase la natura dei comportamenti diventa preminente rispetto addirittura ai contenuti: e forse il compito è più facilitato di quanto non si pensi dalla brezza di “stile povero”, se non francescano, che da qualche giorno spira dal di là del Tevere…
Quello che al leader appare chiarissimo (un po’ meno a molti dei suoi) è che lo scontro politico con il Pd non può avere remissione, pena la distruzione del Movimento o la sua progressiva “digestione” a pezzi e bocconi dagli apparati e dalla nomenklatura della coalizione di centro-sinistra. E che sfuggire alla “normalizzazione” è l’unica prospettiva possibile. Infatti, se come appare più che plausibile, la legislatura sarà effimera e stentata (e magari carica di nuove tasse sui ceti produttivi in una recessione prolungata), la campagna elettorale per la prossima è già iniziata.
Non è pensabile, anche se Berlusconi va in galera, che il centro-destra sparisca di colpo. Semmai, ripulito, avrà una ripresa elettorale almeno quantitativamente omogenea al blocco sociale moderato e antistatalista che nel Paese è forse ancora maggioritario. Sull’altro versante la competizione si farà feroce (se non lo è già adesso); se l’ambizione più che legittima dei 5 Stelle è di raccogliere su di sé il consenso ancora più ampio della generazione precaria cresciuta a pane e web e trasmettere una speranza per il futuro, questa passa per forza di cose dal rifiutare ogni accordo sia esplicito che sottobanco e resistere in ogni modo alla cattura di singoli parlamentari. Il conflitto è tutto nell’area genericamente di sinistra e finirà per essere sempre più incanaglito dalla pretesa suicida del PD di prendersi “tutto”, come se avesse avuto il 60 per cento dei voti, (quando si è fermato al 29 %), servendosi dei grillini come degli “utili idioti” (Lenin docet).