Non c’è stato niente di più antiamericano che il Venezuela di Hugo Chávez. Nel 2002, il Comandante era l’unico a non aver fatto visita all’allora presidente Usa George W Bush. Le divergenze furono tante: il mancato permesso agli aerei statunitensi di sorvolare il Paese per la lotta al narcotraffico, la rottura dei rapporti con la Dea – l’Agenzia federale antidroga americana – le critiche al Piano Colombia, l’opposizione sistematica all’Alca – l’Area di libero commercio delle Americhe -, le numerose visite ai Paesi dell’Opec come l’Iran, l’Iraq e la Libia e gli incontri personali e amichevoli con Mahmud Ahmadinejad, Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. Chávez accusò poi gli Stati Uniti di aver sostenuto il golpe che lo aveva spodestato dal potere per 28 ore.
Ma la vera mala sangre arrivava nel 2006, durante il famoso discorso alle Nazioni Unite: il líder máximo definì George Bush un diavolo, annusando teatralmente l’odore di zolfo rimasto sul podio. Poi, nel 2010 l’ambasciatore americano in Venezuela, Patrick Duddy, divenne d’un tratto «persona non gradita». In risposta anche gli Stati Uniti cacciarono il diplomatico di Caracas. E da allora i due Paesi hanno giocato ad espellersi a vicenda.
Per gli Usa, insomma, gestire i rapporti col padre della rivoluzione bolivariana, fin dalla sua ascesa al potere nel 1999, non è stato affatto facile. Se la relazione tra i due Paesi è stata sempre caratterizzata da forti contrasti – l’ultimo la pubblica accusa mossa dal neo presidente Nicolás Maduro agli Usa di aver contribuito alla malattia del Comandante – la scomparsa di Hugo Chávez apre ad un incerto scenario internazionale. Dopo14 anni di critiche reciproche e bisticci diplomatici, in molti sperano in un cambiamento. Ma è chiaro che la scomparsa di Chávez non significa che le tensioni nelle relazioni bilaterali si possano ammorbidire con facilità. A Caracas sono tutti d’accordo. «Il cadavere di Chávez è troppo caldo», sintetizza l’internazionalista venezuelano Adolfo Salgueiro a Linkiesta. Ma c’è di più. «Bisogna fare una distinzione importante nei rapporti Usa-Venezuela. C’è un primo piano, quello retorico, fatto di dure parole e ideologia antiamericana, che almeno per ora, peggiorerà.
C’è poi un secondo piano, quello pratico. «Gli Stati Uniti sono tra i partner commerciali più importanti per il nostro Paese. L’anno scorso sono transitati circa 35 miliardi di dollari. Insomma, gli Usa hanno tutto l’interesse nel mantenere una relazione commerciale e il Venezuela dall’altra parte ha bisogno di questa partnership», spiega l’esperto di Diritto internazionale all’Università Centrale del Venezuela. Dati alla mano, gli Stati Uniti sono tra i soci più importanti di Caracas, con il 24 per cento delle importazioni provenienti da Washington e il 42 per cento delle esportazioni verso gli Usa. Senza contare che il Paese latinoamericano è al quarto posto nella lista dei maggior fornitori di petrolio. Gli States, d’altro canto, hanno continuato a mandare macchinari e veicoli e, negli anni, le esportazioni di gas naturale sono perfino aumentate. Nonostante l’assiduo controllo sulla gestione economica dal palazzo Miraflores e la nazionalizzazione di centinaia di imprese private negli ultimi dieci anni, molte compagnie statunitensi lavorano in suolo latino, offrendo non solo beni ma soprattutto un legame permanente con Washington.
Se Stati come la Colombia, il Brasile o il Perù negli ultimi anni hanno aperto le porte agli Usa, traendo grossi benefici, Barack Obama aspetta fiducioso. Vuole lavorare per migliorare le relazioni con il Venezuela, anche nella lotta, lasciata a metà, contro il narcotraffico e il terrorismo. Ma c’è da andare cauti. Dopo tutto, anche senza Chávez, il chavismo sopravvive. E i suoi difensori conservano tuttora dei posti chiave alla guida del Paese. Ne è convinto anche il sociologo e analista politico Carlos Raul Hernández, docente all’Università Centrale del Venezuela, che da anni scrive libri sulla democrazia e la “mitologia rivoluzionaria”: «Negli ultimi mesi, in realtà, i rapporti tra i due Paesi erano migliorati. Nicolás Maduro aveva stretto i contatti con gli Usa, sotto la spinta di Raul Castro che, scomparso l’asse Hugo Chávez-Fidel Castro, adesso guarda con preoccupazione al futuro. Con la morte di Chávez, c’è stata però una battuta d’arresto», spiega a Linkiesta il politologo, «Maduro sta strumentalizzando lo scontro Usa-Venezuela a fini politici, per la sua campagna elettorale». Perfino le dichiarazioni di apertura della portavoce del Dipartimento di Stato americano Victoria Nuland, a Caracas sono arrivate come una doccia fredda. «Anzi, al contrario», dice il professor Salgueiro, «il governo venezuelano ha recepito quelle parole come una brutta ingerenza nella politica interna del Paese e le ha rispedite al mittente, insieme ai due diplomatici americani giunti in città».
Il cambiamento, insomma, dipenderà da chi tra qualche settimana, assumerà le redini del Paese. I sondaggi parlano chiaro: Nicolás Maduro è in vantaggio sull’oppositore Henrique Capriles. «Eppure nella maggior parte dell’America Latina la retorica antiamericana sta scomparendo. Potrebbe accadere anche a Caracas. Il punto è capire quando», conclude l’internazionalista venezuelano.