Mentre i partiti giocano, tra “acchiappa Grillo” e “sfuggi alle procure”, la crisi finanziaria è pericolosamente scomparsa dall’agenda delle priorità italiane, sommersa dallo scemenzario da campagna elettorale. Il quadro è preoccupante per un paese abituato a muoversi soltanto in una logica di emergenza e difatti alcuni degli attori sulla scena, soprattutto le alte cariche istituzionali, avvertono il rischio che l’Italia, finito il carnevale post elettorale, torni a invocare un commissario-garante alla Mario Monti.
In queste ore solo Giorgio Napolitano, alla sua ultima impresa da capo dello stato, sembra consapevole delle gravide incognite poste da uno stallo istituzionale che pare destinato a protrarsi a lungo e che si consuma tra i marosi della recessione. L’urgenza e il pericolo della speculazione finanziaria non sono venuti meno, ma sembrano dimenticati dalla classe politica, scivolati in fondo, schiacciati dai fumi e dai balletti di una campagna elettorale permanente. Sembra un secolo fa, non due anni fa, che Silvio Berlusconi “abdicava” a favore di Monti spinto dall’Europa e terrorizzato, lui e il sistema politico-finanziario tutto, dalla possibilità del default, del fallimento dell’Italia.
Il governo tecnico di Monti ci ha messo una pezza, come si dice, ha liberato l’Italia e in parte anche l’Europa dall’ondata di sfida alla moneta unica e ai debiti nazionali, senza bisogno di diventare clienti del bund e dei suoi amministratori, senza prestiti, senza perdere la faccia. Ma pure, con la sua azione, Monti ha aggravato la recessione, segno che i rischi non sono dietro le spalle del paese, che la crisi non è affatto finita ma più semplicemente dimenticata da un’Italia politica che adesso si attorciglia intorno all’evanescente ipotesi di un accordo tra Grillo e Bersani e che appare anche squassata dalla crisi inarrestabile del fenomeno berlusconiano.
Solo il Quirinale, a poco più di un mese dal termine del suo settennato, lavora, impermeabile al circo politico che lo circonda, per dare un governo, e un po’ di stabilità, all’Italia povera e matta uscita dalle elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi. Pier Luigi Bersani preferisce sentirsi chiamare “morto che parla”, farsi dare del “leccaculo” e dell’“adescatore” piuttosto che cercare un qualsiasi tipo di intelligenza con il nemico atavico, belzebù Berlusconi. I capi del Pd, confortati da una parte della loro base e dai loro giornali di riferimento, sostengono che per garantire la governabilità del paese e la sua sicurezza bisogna parlare con i grillini, malgrado questi non abbiano nessuna intenzione di parlare con il Pd. E dunque ecco lo stallo, a sinistra.
Ma non va meglio a destra, dove Berlusconi sembra arrivato ormai alla resa dei conti finale con la magistratura: braccato, inseguito dall’ipotesi che la procura di Napoli ne chieda l’arresto, delegittimato e isolato sotto tutti i profili. Il Cavaliere pencola, perigliosamente, tra la tentazione di issare bandiera bianca e di concedere tutto al nemico purché si possa chiudere un accordo che tuttavia il Pd non vuole affatto; e il riflesso del predatore messo all’angolo, la tentazione rabbiosa della guerra totale: l’Aventino istituzionale che già venerdì prossimo potrebbe ritardare l’elezione del presidente del Senato e aggravare così l’ingorgo istituzionale. In questo quadro di disfacimento complessivo, l’Italia e i suoi guai non trovano spazio, non sono nell’agenda, non sono a tema. L’operazione di Monti, la sua “salita” in campo, aveva il senso di trasformare l’emergenza in una issue politica, costringere cioè le forze rappresentate in Parlamento a misurarsi al di fuori della vecchia antinomia berlusconiani-antiberlusconiani precipitando nel dibattito pubblico la competenza, l’elitismo professorale e l’amara realtà di una crisi economica che pesava (e ancora pesa), gravida di incognite, sull’Italia.
L’operazione non è riuscita fino in fondo, Monti è rimasto fermo sulla battigia del 10 per cento e la politica italiana ha ripreso a comportarsi esattamente come prima, come nulla fosse accaduto, come se lo spread non fosse mai arrivato al picco spaventoso dei 576 punti, come se tutti avessero dimenticato le ragioni che costrinsero Berlusconi a dimettersi a novembre del 2012. Napolitano è consapevole di tutto questo, e la tragedia italiana è anche qui: nella figura di un presidente tanto consapevole quanto ormai debole perché seduto su una poltrona in scadenza, una carica prestigiosa che è già al centro degli appetiti politici. Quale sarà l’ultima mossa del presidente? Davvero darà l’incarico a Bersani, o forse, all’orizzonte, c’è un altro Monti?