È il conclave dell’incertezza: 115 cardinali dovranno prendere una decisione non facile dopo la rinuncia di Benedetto XVI. In questi giorni di discussioni e “congregazioni generali” sembra ancora che il passo indietro del Papa tedesco resti il fatto più “importante”, l’elemento nuovo irrisolto con il quale fare i conti, anche più significativo dell’elezione di un successore. Tuttavia dalla prossima settimana sarà conclave. È quindi in un simile strano contesto, anomalo di certo per la Chiesa, che i cardinali provano a trovare una via d’uscita a una crisi profonda dell’istituzione.
Anche per questo non emergono, a differenza di quanto spesso è accaduto in passato, leader in grado di coagulare maggioranze ben definibili in termini per esempio di “conservatori” e “liberali” o “favorevoli al Concilio Vaticano II” e “tradizionalisti”. Si tratta di categorie che, in parte, esistono ancora ma in realtà la coscienza delle questioni aperte è diffusa trasversalmente fra i porporati. Ora un sacro collegio dove i progressisti in senso storico sono praticamente spariti, deve confrontarsi comunque con i temi della riforma della Chiesa e della Curia romana.
Non è poco, e allora la sfida diventa quella fra i “curiali” e gli altri, cioè una parte degli europei e soprattutto degli extraeuropei. I cardinali di America, Africa e Asia rivendicano infatti un primato indiscutibile: il cattolicesimo è forte e si sviluppa in queste aree del mondo, è insomma oltre i confini del vecchio continente che la Chiesa è ancora viva mentre tutte le statistiche con il segno “meno” dal punto di vista religioso, riguardano l’Europa. Non è solo un problema di calo delle vocazioni, ma la stessa vitalità del cristianesimo e il suo confronto con la modernità sembra ormai avvenire lontano da Roma.
Così negli ultimi giorni è caduto un altro tabù: quello di un ipotetico Papa proveniente dagli Stati Uniti d’America. Per molti decenni, in particolare durante la lunga stagione segnata dalla guerra fredda, e anche in questo primo quarto di secolo successivo alla caduta del muro di Berlino, una regola non scritta voleva che il Papa non fosse nordamericano affinché un potere troppo grande non fosse concentrato nelle mani di un solo Paese. Anzi, considerato che spesso la politica americana produceva conflitti e tensioni internazionali, si riteneva che la Santa Sede dovesse mantenere la giusta distanza critica dalla Casa Bianca pur in un rapporto di amicizia.
In breve, l’aprirsi del mondo contemporaneo a nuovi soggetti internazionali, Cina, Brasile, India Russia, tanto per citare solo i casi classici, l’emergere di un mondo sempre più multipolare, la fine del trentennio reaganiano – cioè della grande potenza unica guida politica ed economica del mondo – hanno contribuito a mettere in discussione anche gli assetti interni alla Chiesa. L’apertura del sacro collegio al mondo cominciò del resto da Pio XII che internazionalizzò non poco le nomine cardinalizie. Da allora in avanti il processo, con alti e bassi, è comunque andato avanti.
Ma ad aver assestato il colpo definitivo alla Curia, dove gli italiani la fanno da padroni, sono stati certamente gli ultimi anni di scandali, crisi, problemi finanziari, lotte di potere. Con fastidio crescente, gli episcopati del mondo hanno assistito alla deriva autoreferenziale della Curia romana, e anche anziani e autorevoli cardinali come il tedesco Joachim Meisner, di Colonia, amico personale di Ratzinger, hanno chiesto al Papa di allontanare il Segretario di Stato Tarcisio Bertone giudicato non all’altezza della situazione. Sul versante opposto, la vecchia curia, quella wojtyliana dell’ex Segretario di Stato Angelo Sodano e del cardinale Leonardo Sandri, oggi responsabile delle Chiese orientali, si è sottilmente e tenacemente opposta al “governo Bertone”.
Il tutto ha avuto ricadute pesanti sullo stesso Pontefice, che si è sentito alla fine schiacciato dal peso di questi scontri, mentre imperversava lo scandalo degli abusi sessuali sui minori. Un dato, quest’ultimo, che richiede alla Chiesa, oltre alla necessaria pulizia interna – pesantissima nelle conseguenze per molti alti prelati – di riorganizzare il suo pensiero intorno alla sessualità e quindi di affrontare un capitolo chiave dell’epoca moderna. Poi, certo, ci sono questioni più immediate: la riduzione dei dicasteri della Curia, l’urgenza di smantellare la burocrazia vaticana simile a una corte reale ormai insostenibile, il parallelo processo di decentramento e così via.
In questo quadro, una Chiesa ancora forte e in crescita grazie allo straordinario apporto dell’immigrazione dall’America Latina, sta chiedendo di contare di più. Gli 11 cardinali americani vogliono il Papa. l’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, conservatore dal carattere forte, è uno dei pretendenti alla successione di Benedetto XVI, con lui c’è Sean Patrick O’Malley, il frate cappuccino di Boston che ha guidato la diocesi dopo l’esplosione dei casi di pedofilia e la fuga del suo predecessore, il cardinale Bernard Law, a Roma.
Non sono però gli unici candidati. Fra gli italiani spicca ancora il nome del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, di ascendenza ciellina. Un’appartenenza che lo ha messo in qualche difficoltà visto il numero di scandali e vicende giudiziarie che hanno investito l’organizzazione fondata da don Giussani in questi anni. L’Italia, da questo punto di vista, porta con sé il peso di un discredito internazionale che non può essere sottovalutato. Tuttavia Scola gode comunque di una propria autorevolezza anche se indubbiamente la sua storia s’intreccia con quella degli scontri fra Segreteria di Stato e conferenza episcopale che hanno contribuito alla crisi del pontificato di Benedetto XVI. Dall’America Latina avanza il nome di Odilo Sherer, il brasiliano di origini tedesche alla guida della diocesi di San Paolo in Brasile.
Va infine considerato che in questi giorni i cardinali stanno discutendo anche del nome del prossimo Segretario di Stato. Per questo si parla, un po’ sorprendentemente, di “ticket”, cioè della nomina di un Papa e del suo braccio destro, cercando un accordo e un equilibrio fra le varie forze in campo. Si vedrà. Certo è che il partito dei nunzi, cioè gli ambasciatori della Santa Sede il cui ruolo è stato in parte depotenziato da Benedetto XVI in una visione che metteva al primo posto il ritorno alla liturgia e ai fondamentali della fede, piuttosto che la politica, vuole tornare a dire la propria. D’altro canto se è vero che la Chiesa non può essere solo uno Stato, è importante che sappia ascoltare la voce della “storia”, e in questo senso le nunziature hanno sempre svolto un ruolo di rilievo.