Tra Italia, Usa e Sud America: i papabili in lizza

Ieri la prima fumata nera

Sarà un conclave lungo o breve, di contese inesauribili o di scelte già compiute? Le domande sono quelle classiche: il momento in cui i cardinali si chiudono nella Cappella Sistina è da sempre circondato da una vertigine, ancor più di fronte all’ubriacatura mediatica di queste settimane.

L’incomunicabilità con l’esterno, del resto, non può che far crescere il mistero e l’attesa. Allo stesso tempo la pressione del mondo sui grandi elettori chiusi in Vaticano aumenterà con il passare delle fumate nere. Molti di loro in questi giorni non hanno nascosto di sentire addosso «il peso e la responsabilità della scelta». Da martedì sera, dunque, il rito si ripete anche se un po’ aggiornato nei metodi; non ci sarà più la paglia bagnata per il fumo nero ma prodotti chimici che aiuteranno a distinguere il colore che uscirà dal comignolo della Sistina e poi la schermatura elettronica per impedire le comunicazioni con il mondo esterno, ma anche il più tradizione giuramento del silenzio circa gli avvenimenti cui assisteranno da parte del personale che comunque in quei giorni si muoverà all’interno delle mura leonine.

Le ultime ore prima che il conclave prenda il via, però, potranno essere decisive per quei papabili in cerca di voti. Le previsioni della vigilia – da prendere però sempre con le molle – descrivono il seguente scenario: una prima votazione martedì sera che si concluderà in un nulla di fatto e in cui si comincerà a vedere la predisposizione dei candidati e le possibili alleanze. Lo scenario potrebbe ripetersi per tutto il giorno seguente, mercoledì.

A quel punto, passata una seconda notte di riflessioni e conciliaboli, si arriverebbe alla scelta dell’«habemus papam» già giovedì. Questo se le cose andranno, per così dire, bene. Non tutti la pensano in questo modo però. L’arcivescovo di Durban, Sud Africa, il cardinale Wilfrid Fox Napier uscendo dall’ultima congregazione generale dei cardinali ha detto: «Siamo pronti per entrare in conclave e sarà più lungo dell’ultimo»;

Per l’elezione di Ratzinger ci vollero quattro fumate, ma la candidatura dell’ex prefetto della Congregazione per la fede era in preparazione già da alcuni anni. «Non c’è un Ratzinger» si ripete ora in Vaticano per dire che la scelta non è già sul tavolo. Napier, che è un porporato esperto e stimato, ha anche spiegato che tutti vorrebbero essere a casa per Pasqua e però ha aggiunto: «abbiamo un’ampia scelta tra candidati piuttosto giovani e abbiamo più tempo per discuterne». E già questa è una novità.

Alla vigilia i candidati più accreditati alla successione sono un gruppo di 3 o 4 su cui stanno convergendo una parte dei consensi. C’è l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, sostenuto da una parte dei cardinali europei e italiani; questi ultimi però sono divisi fra varie cordate: i cardinali più vicini al segretario di Stato Tarcisio Bertone, quelli che seguono il decano del Sacro Collegio Angelo Sodano, gli arcivescovi metropolitani che invece daranno il voto a Scola.

Il cardinale Camillo Ruini non entrerà in conclave ma ha lavorato alacremente per l‘arcivescovo di Milano. Scola punta a quota 40 come minimo, cioè a un numero di voti sufficienti fin dall’inizio a porlo in una pole position tale da dargli la spinta giusta per arrivare ai 77 voti necessari – i due terzi dei votanti – che permettono l’elezione. Insieme a lui troviamo l’arcivescovo di San Paolo del Brasile, Odilo Sherer, sostenuto da una parte della curia romana ma soprattutto da diversi cardinali americani; anche altri porporati del sud del mondo si stanno orientando a votarlo.

Una vera incognita di questo conclave restano però i cardinali degli Stati Uniti. Un Papa americano è ancora guardato con qualche sospetto – troppo potere per un Paese già così influente, vuole la vulgata – eppure mai come questa volta la questione è stata posta apertamente. In prima battuta gli statunitensi potrebbero fare una schermaglia lanciando l’arcivescovo di New York Timothy Dolan, anche per cominciare a contarsi. In una seconda fase potrebbe emergere la figura di Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, che è sì degli States ma è un francescano cappuccino, amico dell’America Latina e in grado di raccogliere i voti anche di molti indecisi. 

Se questo è lo schema di massima della vigilia, tutto potrebbe entrare in discussione. Il rischio infatti è il cosiddetto stallo, cioè l’impossibilità per un candidato di arrivare a quota 77, il che imporrebbe la ricerca di una mediazione ulteriore. A quel punto i voti potrebbero rimescolarsi. Le figure in grado di rompere l’impasse sono il cardinale canadese di Curia, il conservatore ratzingeriano Marc Ouellet; l’arcivescovo di Budapest Peter Erdo, uomo pragmatico e bene conosciuto in Europa; l’arcivescovo di Vienna Christoph Schoenborn, considerato la personalità capace di governare la crisi della Chiesa e anche le richieste di riforma pur essendo legato alla tradizione.

Se nessuno di questi dovesse farcela, si apre un’altra soluzione. Vale a dire la scelta di un cardinale già anziano, che avrebbe l’incarico di affrontare in modo particolare il tema della riforma e dello snellimento della curia romana, una sorta di pulizia interna e una sua riorganizzazione, quindi la questione finanziaria e una ripresa dell’evangelizzazione fuori dai confini dell’Europa.

Per questo anche un uomo non più giovane che contese il pontificato a Ratzinger nel 2005 come l’argentino Jorge Bergoglio, potrebbe tornare utile. Fra gli outsider resiste l’arcivescovo di Manila, Filippine, Luis Tagle, che però è considerato troppo giovane con i suoi 56 anni. Ma da questo punto di vista bisogna pure considerare che le dimissioni del Papa hanno stabilito un precedente importante: il papato non è più a vita. 

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