Siamo un paese come Paolo Brosio, l’ex cronista di Emilio Fede, incollato davanti al palazzo di Giustizia di Milano. Fermo a vent’anni fa con il suo bel pulmino bianco e il microfono e l’ombrellino e la telecamera a riprendere ossessivamente in diretta tv gli ultimi spasmi della Prima Repubblica morente.
L’Italia di queste ore esce da un pericoloso pareggione elettorale che produce stallo e ingovernabilità, il mondo intero ci guarda. Abbiamo davanti scadenze economiche da fare tremare i polsi, la recessione morde, le imprese chiudono, c’è sempre meno lavoro e siamo alla vigilia di un importante Consiglio europeo che dovrà cominciare a ragionare di quale Europa vogliamo nei prossimi anni, eppure non riusciamo a schiodarci da quel vecchio presepe ideologico che ha avvelenato l’intera Seconda Repubblica: il cortocircuito giustizia-politica, l’eterna lotta tra berlusconiani e antiberlusconiani.
Ininterrottamente da sabato mattina tra le aperture forti di siti web, giornali e Tg svetta l’ennesima querelle legata ai processi che vedono coinvolto Silvio Berlusconi – a questo giro si litiga su Mediatrade e Ruby – con il Cavaliere che schiva le aule di tribunale e dalle stanze del San Raffaele, dov’è ricoverato per un problema all’occhio, invoca il legittimo impedimento, tiene vertici e riceve persone, maledicendo chi vorrebbe costringerlo alla fine di Bettino Craxi (il quale finchè è rimasto in Italia in aula ci andava senza produrre certificati medici, ndr). I Pm di Milano, dal canto loro, con una costanza che non si vede quasi mai nella produttività di molti magistrati, mandano all’ex premier visite fiscali a ripetizione, non mollano l’osso. Mentre su Repubblica è partito l’ennesimo accorato appello di nomi noti e intellettuali perchè Beppe Grillo ci ripensi e accetti responsabilmente un governo in qualche modo con il Pd, unica alternativa alle urne o, quel che è peggio, ad un nuovo governissimo a braccetto con il Caimano. E non fa nulla se sui programmi la convergenza è mission impossible.
Poi ci sono gli ultrà. Domenica sera i berluscones minacciano una manifestazione pro Silvio davanti al palazzo di Giustizia di Milano, il Cavaliere più o meno tatticamente li stoppa ma è fatica vana. Ieri mattina, riflesso perverso, sono i nemici dell’ex premier a presentarsi di fronte al tribunale in una sorta di contro sit in, fino al gran finale del pomeriggio quando parlamentari e militanti del Pdl, tutti in fila dietro al segretario Alfano, occupano simbolicamente il palazzone di corso di Porta Vittoria, invocando l’intervento del presidente della Repubblica contro chi vorrebbe eliminare per via giudiziaria Silvio Berlusconi, sovvertendo il consenso degli italiani.
Insomma siamo sempre lì, al bipolarismo di guerra e al “sequestro” di un intero paese che avrebbe bisogno di aria fresca, riforme, energie e volti nuovi per ripartire, condannato a non staccare la testa dal Tribunale di Milano. Tutti i santi giorni, nonostante la crisi. Come Paolo Brosio.
Con il paradosso che proprio la giustizia, così ossessivamente evocata, in questi vent’anni di fissità ideologica non è mai stata nemmeno riformata. Cornuti e mazziati. Per Berlusconi l’inefficienza della macchina giudiziaria è sempre stato un grande alibi da esibire agli italiani, continuando tranquillamente a fabbricarsi leggi ad personam per evitare il giudizio dei tribunali. «Se il rapporto del Cavaliere con i tribunali è lo stesso che hanno molti di noi – è il ragionamento dell’uomo della strada – ossia burocratico, scorbutico, farraginoso, costoso, incerto e lunghissimo, vuoi vedere che qualche ragione ce l’ha nel dare addosso ai giudici? Nel dire che lo stanno perseguitando?» Quanto ci ha campato l’ex premier su questo senso comune, su questa immedesimazione?
Per molta sinistra, invece, riformare la giustizia è sempre stato un tabù inviolabile, penale o civile non fa differenza, perchè avrebbe significato un cedimento al pericoloso Caimano, il male assoluto, avrebbe significato spezzare la solidarietà con il partito dei giudici e con un certo establishment politicamente corretto, indebolendo l’unico collante che per molti anni l’ha tenuta insieme: appunto l’anti-berlusconismo.
Il risultato è che non ha mai voluto né saputo separare le sorti del Cavaliere e le sue gravi pendenze giudiziarie dall’urgenza di cambiare e ammodernare una macchina pletorica, poco produttiva, spesso arrogante, che espone imprese e cittadini a processi e contenziosi infiniti oltre che tenere lontani investitori stranieri e multinazionali, spaventati dall’investire in un paese dove ancora oggi, far valere i propri diritti, rischia di trasformarsi in una lotteria. L’avesse fatto, sarebbe caduto il grande alibi del Cavaliere. E forse oggi, con tutte le cose urgenti che abbiamo da fare, non ci troveremmo ad essere un paese sequestrato dal continuo “ritorno di Silvio”. E affetto dalla sindrome di Paolo Brosio.