«È stata una settimana dura. Ma abbiamo visto ancora una volta il carattere del nostro paese», ha detto Barack Obama dopo la cattura di Dzokhar Tsarnaev, uno dei due attentatori di Boston. Il ceceno di diciannove anni che assieme al fratello Tamerlan (morto in una sparatoria con la polizia giovedì sera) avrebbe piazzato due bombe artigianali all’arrivo della maratona è stato preso al termine di una caccia all’uomo di proporzioni epiche in uno scenario urbano completamente militarizzato.
Non c’è dubbio che il dispiegamento di forze visto a Boston mostri la risolutezza di un paese deciso a scacciare il fantasma del terrorismo riemerso dalle nebbie, ma la settimana infernale dell’America non si esaurisce nelle bombe del Massachusetts. Lettere avvelenate, inconcludenti faide politiche, esplosioni mortali e disastri mediatici hanno incorniciato uno scenario mesto e luttuoso. È mancata soltanto l’invasione delle cavallette per conferire un’intonazione biblica alle circostanze.
Le indagini e gli interrogatori sulla strage di lunedì scorso chiariranno se i fratelli Tsarnaev, di origine cecena, hanno avuto contatti con gli ambienti del terrorismo internazionale o se hanno deciso, pianificato e compiuto l’attacco in maniera autonoma. Il viaggio di sei mesi che il maggiore dei due ha compiuto in Russia l’anno scorso può offrire indizi in questo senso, ma in ogni caso l’accaduto impone una riflessione: com’è possibile che due ragazzi che sono stati accolti fra le braccia dell’America e lì sono cresciuti esattamente come decine di milioni di stranieri arrivati adolescenti nella “land of the free” decidano a un certo punto di bersagliare vittime innocenti con ordigni fatti in casa?
Questa domanda introduce una nota drammatica che va al di là dei dettagli di un’indagine conclusa con successo. La caccia all’uomo dimostrerà anche «il carattere del nostro paese», ma segnala anche un problema complesso che nessun team delle forze speciali, nessun drone, nessun decreto del presidente, nessuna manovra tattica dell’Fbi è in grado di risolvere.
Il secondo aspetto che emerge nella strage riguarda la serie di pasticci mediatici combinati nel tentativo di raccontarla. Nella foga ansiogena di spiegare tutto la verità si è sgretolata in milioni di tweet contraddittori puntualmente smentiti dalle fonti ufficiali: i morti dapprima erano dodici (fonte New York Post), poi si sono ridotti a tre; l’attentatore era uno soltanto poi sono diventati due, tre, dieci; la pelle scura dell’attentatore confermata dalla Cnn si è progressivamente sbiancata sotto il fluire furioso delle notizie. Infine gli uomini sono diventati due, gli stessi che giovedì sera, all’inizio della fase acuta della caccia, hanno rapinato un drugstore dove sono stati ripresi dalle telecamere, salvo poi scoprire che la rapina non c’entrava nulla e le immagini provenivano da una stazione di servizio.
Senza contare le speculazioni sul movente: suprematisti bianchi dell’ultradestra, uno psicopatico a briglia sciolta, il terrorismo islamico, una frangia di ossessionati dagli eccessi dello stato che colpisce simbolicamente nel Patriots’ Day, il simbolo della liberazione dal giogo della madrepatria. Tutti i network raccontavano pezzi sparsi di verità che una volta messi insieme restituivano un’immagine completamente falsa.
La Cnn ha toccato il fondo annunciando mercoledì pomeriggio l’arresto del responsabile (a quel punto era uno soltanto). Il fallimento in real-time dei media riflette anche la confusione nella gestione delle indagini da parte degli inquirenti: ci sono stati centinaia di “leaks” anonimi passati alla stampa troppo in fretta e in modo troppo confuso, e l’effetto finale è stato più o meno lo stesso di quel gioco che si fa da bambini sussurrando una parola all’orecchio del compagno. La parola si distorce inevitabilmente nel passaggio da orecchio a orecchio e l’ultimo della catena riceve una versione completamente diversa dall’originale.
La gravità delle vicende di Boston ha messo in secondo piano la lettere avvelenate che sono state mandate al presidente e a diversi senatori. Le buste sono risultate positive alla ricina, sostanza letale giù usata in modo simile nel 2003. Quel caso non è mai stato risolto. Le lettere recapitate a Obama e al senatore del Mississippi Roger Wicker erano firmate «KC», le iniziali di Kevin Curtis, 45enne residente a Corinth, nel Mississippi, che si guadagna da vivere imitando i cantanti famosi. La sua specialità è Elvis, cosa che ha scatenato considerazioni amaramente ironiche in rete: «Questa settimana abbiamo scoperto che anche Elvis è malvagio».
Curtis è stato arrestato e si è dichiarato innocente in un aula di tribunale nella città di Oxford. La ex moglie dice che è mentalmente instabile e che non ha le conoscenze per estrarre ricina letale dai semi che si possono acquistare in rete con relativa facilità. Anche in questo caso l’inchiesta potrà chiarire i contorni della vicenda, ma il clima di tensione che questa settimana è stato nutrito da un pullulare di allarmi veri o falsi permane.
Il Senato questa settimana ha bocciato la proposta di legge sul controllo delle armi da fuoco sulla quale Obama e i democratici hanno investito un enorme capitale politico dopo la strage di Newtown, a dicembre. La camera alta ha addirittura rigettato il blando compromesso siglato dal democratico Manchin e dal repubblicano Toomey per estendere a tutti gli acquirenti di armi i background check, i controlli delle autorità, e il partito del presidente non è riuscito nemmeno a votare in modo compatto la proposta.
Altri emendamenti assai più orientati verso i desiderata di Obama (bandire le armi d’assalto in stile militare, limitare le dimensioni dei caricatori) sono stati fatti a pezzi con il sostegno di un’ampia fronda democratica. È stata una sconfitta politica bruciante per il presidente. Ma qualunque opinione si abbia sulla questione delle armi da fuoco, il Congresso ha recitato in forma solenne la vecchia liturgia dell’inconcludenza: che si tratti di bilancio o di proposte di taglio sociale, in questo clima politico sembra impossibile fare riforme condivise. Lo spazio del dialogo si smaterializza persino quando due autorevoli rappresentanti dei partiti mettono nero su bianco un accordo che riduce ai minimi termini le rivoluzionarie intenzioni dell’origine.
Dove non ha potuto la vacuità della politica o la follia del terrorismo, ci si è messa la fatalità. La devastante esplosione di una fabbrica di fertilizzante a West, in Texas, ha esatto un tributo di sangue ancora da stabilire con precisione. Il quotidiano Usa Today parla di 35 morti e oltre 160 feriti, ma George Smith, il capo dei servizi di emergenza della contea, dice che il bilancio delle vittime potrebbe salire fino a 70: sono troppi i primi soccorritori ancora dispersi.
Pompieri e polizia hanno circondato lo stabilimento dove si è sviluppato un incendio ed è a quel punto che si è scatenata un’esplosione che ricorda uno scenario di guerra più che il teatro di un incidente industriale. Del resto, il fertilizzante a base di nitrato d’ammonio è il materiale preferito dai terroristi di tutto il mondo per fabbricare bombe artigianali. La cittadina di West è diventata una specie di Dresda dopo i bombardamenti: oltre allo stabilimento sono state distrutte decine di case adiacenti, e la deflagrazione è stata talmente potente che a distanza di giorni è ancora difficile quantificare vittime e danni. L’ennesima disgrazia in una settimana «dura», come l’ha definita il presidente, usando un eufemismo.