È stato il chiodo fisso di molti partiti per cinquant’anni, la proposta di legge da sintetizzare in un solo articolo: abolire l’Ordine dei giornalisti. Ci hanno provato un po’ tutti: i radicali, ovviamente, ma pure repubblicani, liberali, missini, popolari e, infine, berlusconiani. C’è chi l’attacco l’ha sferrato in Parlamento, e chi, invece, ha chiesto aiuto alle piazze, raccogliendo le firme per un referendum abrogativo. Niente. Il tiro al bersaglio non ha mai centrato l’obiettivo principale.
L’Ordine è così forte da sopravvivere ancora con la stessa organizzazione e le stesse regole del 1963. Vede crescere il numero di iscritti, che sono a quota 100mila, e, di conseguenza, lievitare le entrate, che solo per le quote sono superiori a cinque milioni di euro l’anno. C’è un muro contro il quale si infrangono tutti i propositi di liberalizzare e dare alla professione in Italia una dimensione più europea.
L’ultimo tentativo è del Movimento 5 stelle, che al Senato ha presentato due disegni di legge per cancellare in un colpo solo sia l’Ordine dei giornalisti sia i contributi pubblici all’editoria. A firmarlo sono stati tutti i senatori del M5s, con il capogruppo Vito Crimi in testa. Beppe Grillo l’aveva promesso fin dai primi Vaffa-day, attaccando il mondo dell’informazione («una casta») e definendo fascista quell’albo obbligatorio istituito in Italia prima nel 1925 e poi con la legge numero 69 del 1963 (anche se, in realtà, il primo elenco risale alla fine del 1800).
Il comico genovese invitava i giornalisti alla disobbedienza nei confronti di un ordinamento professionale che non era mai stato garante della deontologia. «I giornalisti liberi straccino la tessera, non ne hanno bisogno, il loro unico punto di riferimento è il lettore», scriveva Grillo sul suo blog nel 2008, aggiungendo un ironico riferimento al fatto che Hitler avesse deciso di copiare tutto da Mussolini e dal fascismo. «Tranne una cosa: l’albo professionale dei giornalisti. Non aveva abbastanza pelo sullo stomaco».
Per rimediare a quella che viene definita l’anomalia italiana nel contesto europeo, Grillo aveva puntato inizialmente sul referendum abrogativo. Le firme raccolte nel 2008, però, erano insufficienti. Proprio come accadde nel 1974 ai radicali, che iniziarono una forma di disobbedienza civile sostituendo i direttori dei giornali di partito, tra cui Notizie radicali, con persone non iscritte all’albo dei giornalisti, violando un articolo della stessa legge 69. Nel 1997, invece, lo stesso referendum fu dichiarato ammissibile, ma non raggiunse il quorum. Una magra consolazione per i referendari fu il fatto che il 65,5% si dichiarò favorevole all’abolizione dell’Ordine, ma la percentuale di votanti si fermò al 30%.
Ora che l’indignazione grillina è diventata disegno di legge, l’aspetta la missione più difficile, visto che a Montecitorio e a Palazzo Madama le proposte di abolizione non sono mai state messe ai voti.
La storia parlamentare è piena di tentativi falliti di riformare la professione giornalistica. Un mezzo passo in avanti si è fatto durante la scorsa legislatura. La proposta Pisicchio, approvata soltanto dalla Camera, non prevedeva la soppressione dell’Ordine ma una sua riorganizzazione e l’introduzione di un giurì per la correttezza. Alla riapertura del Parlamento, il deputato l’ha ripresentata.
Le crociate anticorporative cominciarono nel 1972, con tre deputati del Partito repubblicano italiano, Francesco Compagna, Pasquale Bandiera e Adolfo Battaglia. Presentarono una proposta in sette articoli per chiedere la soppressione della legge approvata dalle Camere appena nove anni prima.
Negli anni Ottanta, poi, l’ordinamento della professione giornalistica finì nel tritacarne dei radicali. Un gruppo di deputati, tra cui Marco Pannella e Francesco Rutelli, propose di sostituire l’albo obbligatorio con una «carta d’identità professionale» sul modello francese. L’idea di Pannella piacque così tanto che fu riproposta nelle successive due legislature, il 27 aprile del 1992 e il 26 settembre del 1994. Sempre nel 1992 la stessa strada fu percorsa da Giuseppe Tatarella, all’epoca deputato del Movimento sociale italiano, e da otto parlamentari del Partito liberale italiano.
L’ultima proposta di legge del 1994, firmata dal radicale Marco Taradash, fu sottoscritta da altri 104 deputati di tutto l’arco costituzionale, da destra a sinistra: c’erano quelli di Forza Italia, di Alleanza nazionale, del Ccd, della Lega Nord, dei Progressisti, del Ppi, del gruppo misto. Sembravano esserci i numeri, sembrava potesse realizzarsi una convergenza sull’obiettivo di liberalizzare totalmente la professione. Invece fu l’ennesimo buco nell’acqua.
La stessa sorte toccò a ben otto proposte di legge, presentate tra il luglio del 1996 e l’aprile del 1997, sia alla Camera che al Senato. Il consenso quando si parlava di abolire l’Ordine. Sul “poi” cominciavano le divisioni, persino sul nome da dare ai nuovi organi di autogoverno della professione.
Nel 1997 Sergio Mattarella, dopo aver prestato il cognome alla precedente legge elettorale del 1993 (il Mattarellum, appunto) propose, insieme con altri deputati dell’Ulivo, la sostituzione dell’Ordine con un “Consiglio superiore dell’informazione”, che tutelasse l’autonomia professionale e il rispetto della deontologia. A tre deputati di Alleanza nazionale, Landolfi, Urso e Selva, piaceva di più “Agenzia per l’informazione”. E così nello stesso anno presentarono un’altra proposta di legge.
Nelle ultime legislature a tornare di moda è stato il progetto radicale della carta d’identità per i giornalisti. Una proposta di legge fotocopia è stata presentata dai radicali nel 2006 sotto il nome di Rosa nel Pugno, nel 2008 sotto il simbolo del Partito democratico. Identica, nel contenuto e nell’esito negativo, la proposta del Popolo della Libertà firmata da Carlucci e Picchi.
Ma l’iniziativa che si è avvicinata di più agli obiettivi del Movimento 5 stelle è quella di un parlamentare del Popolo della Libertà. Nel 2010 il senatore Raffaele Lauro ha presentato un disegno di legge con due punti fermi: cancellare l’Ordine dei giornalisti e i contributi all’editoria. Ai quali, poi, ha aggiunto la vendita della Rai e la soppressione della Commissione di vigilanza. Come dire, pane per i denti degli attivisti 5 stelle.