È una nazione di poeti e romanzieri, l’Irlanda. Tanto da aver eletto nel 2011, come suo presidente, Michael D. Higgins, professore universitario ma anche autore di tre volumi di poesie.
Si pensi solo a James Joyce. William Yeats. Samuel Beckett. Tre giganti della scrittura mondiale, figli di una piccola isola che rimane, a dispetto della crisi economica, una vera superpotenza letteraria.
Simbolo vivente di questo fenomeno è Seamus Heaney, Nobel per la letteratura nel 1995. Nato in Irlanda del nord nel 1939, trasferitosi a Dublino negli anni Settanta, Heaney è sempre stato fiero della sua irlandesità. E dell’Irlanda ha cantato le glorie e la grazia. Ma pure le tragedie: perché la storia dell’isola, dalle rivolte dei Desmond nel Cinquecento ai Troubles in Irlanda del nord, passando per la Rivolta di Pasqua del 1916, è soprattutto una lunga sequela di sofferenza, morti e sconfitte («Morimmo a migliaia sui terrapieni, falci contro il cannone/ Il pendio si arrossò della nostra onda infranta» scrive in Requiem per i ribelli irlandesi, riferendosi alla battaglia di Vinegar Hill del 1798). Non a caso è stato detto che gli irlandesi sono i neri d’Europa.
La poesia di Heaney, tuttavia, è spesso senza tempo. Parla di un’Irlanda arcaica, che emerge dai ricordi d’infanzia dell’autore e dalle suggestioni che coglie nei suoi vagabondaggi. Parla della natia contea di Derry. Delle torbiere. Dei fiumi dove si pesca il salmone. Dei campi arati. Dei tetti di paglia e delle fucine dei fabbri. Dell’acqua, onnipresente (“L’oceano e il canale/ schiumeggiano alle chiuse nere/ d’Irlanda”). Un mondo fisico che va oltre il linguaggio, e che non può essere pienamente descritto, perché ciò che separa la realtà dalla parola è la vita stessa. E con la sua poesia Heaney, acculturato discendente di contadini, cerca di farsi mediatore tra natura e scrittura, e a comunicare l’incomunicabile. Nella consapevolezza che la penna è più leggera della vanga, ma che con qualcosa bisogna pur scavare. In parte Heaney riesce nel suo intento: infatti il Nobel gli è stato conferito per le opere «di lirica bellezza e profondità etica, che esaltano i miracoli quotidiani e il passato che vive», Linkiesta lo ha intervistato.
Nel 1995 lei ha dichiarato che è difficile, a volte, non pensare che la storia sia istruttiva quanto un mattatoio. La pensa ancora così?
Ebbene, sì. Voglio dire, ci sono prove di ciò ovunque: in Africa, in Afghanistan, ovunque. Non ho detto che la storia sia sempre stata un mattatoio. Ho detto che ci sono tempi in cui potresti pensarlo. Il riferimento, comunque, era a uno specifico fatto di sangue avvenuto in Irlanda del nord. Comunque sì, penso che ci siano abbastanza prove di quanto ho detto.
Tacito dunque aveva ragione? La pace è davvero solo il deserto che un potere spietato si lascia alle spalle?
Sì.
E allora qual è il ruolo del poeta oggi, nel mondo occidentale?
È sempre lo stesso. È scrivere buona poesia. E tenere l’arte in vita e in forze. Intendo dire che il poeta deve dare resistenza all’arte. Darle, cioè, forza per resistere al tempo che passa, ma anche per tenere a bada il potere. Comunque oggi ogni cosa sta cambiando un tantino a causa di internet. Non so quali effetti avrà internet sulla poesia. Penso che renderà tutto più veloce. E accessibile. Ritengo però che la vera natura della poesia, quella mescolanza di temperamento personale con la condizione dei tempi, non cambierà. Sarà sempre una questione di temperamento, di linguaggio, di una combinazione dei due e di come il tutto sopravvive ai tempi.
L’Irlanda è una superpotenza letteraria. Perché, secondo lei?
Beh, ci sono molti modi per spiegarlo, anche se non è facile. Si potrebbe dire che avendo perso la lingua irlandese e avendo imparato l’inglese, siamo dovuti diventare molto bravi in esso. James Joyce, per esempio, aveva una forte consapevolezza della lingua inglese, una consapevolezza che uno scrittore inglese non potrebbe avere. Penso che ci sia stata una perdita linguistica, dunque. Ha contato pure la consapevolezza del mancato compimento della nostra storia. Oggi l’Irlanda del nord e del sud non sono unite, ma per secoli la nazione è stata in una condizione di inquietudine. Era come se la storia dovesse ancora chiudersi, o rivelarsi, certamente finire. Ma ciò non è mai avvenuto. Ancora, c’è la questione della Chiesa cattolica, contro cui si ribellò James Joyce, e quella della relazione tra l’Irlanda e l’Inghilterra. C’è il comune interrogativo, tra gli scrittori: qual è la nostra posizione? Oscar Wilde e George Bernard Shaw sono considerati scrittori inglesi, ma entrambi avevano una relazione ironica con la Gran Bretagna, con l’Inghilterra, e da ciò traevano parte della loro energia. Insomma, dietro la risposta alla sua domanda ci sono stati fattori linguistici, politici e forse anche religiosi.
E invece qual è stata la sua relazione personale con gli Stati Uniti, dove ha vissuto e insegnato?
Ho lavorato lì per anni, ad Harvard. E uno dei migliori anni della mia vita è stato il 1971, quando ero all’Università della California a Berkeley. Gli anni Sessanta erano appena finiti, era il momento del Vietnam, delle proteste, dei poeti che partecipavano alla vita pubblica e così via. Erano tempi molto formativi ed eccitanti.
Un’ultima domanda: lei ha tradotto il Beowulf, ed è un grande conoscitore di Virgilio. Ma che senso ha, oggi, leggere l’epica?
Si legge l’epica per amore per la letteratura. Non vedo un motivo politico per leggere, ad esempio, l’Eneide. Si leggono opere come quelle citate per la loro bellezza, per la loro forma.