“Internet non basta: i mass media ci ingannano ancora”

Intervista a Riccardo Motti

Cosa è reale? Cosa è rappresentazione? Nell’era delle comunicazioni di massa, i confini tra le due definizioni si sgretolano. E le relazioni interpersonali ne risentono: “Siamo parti di monadi isolate che si guardano nella metro, sono imbottigliate nel traffico, sono l’una accanto all’altra ma non si parlano, non interagiscono”, spiega Riccardo Motti, giovane scrittore e giornalista italiano residente a Berlino. Al tema Motti ha dedicato il suo primo libro, “La mistificazione di massa” (Mimesis edizioni, 2013). Un trattato che riflette sul ruolo che l’industria culturale gioca nell’immaginario comune, in particolare nella sua relazione più controversa e abusata: quella con la politica.

La diffusione dei mass media, oggi: un rischio, un’opportunità o entrambe le cose?
La diffusione dei mass media al giorno d’oggi ha raggiunto un’estensione particolarmente vasta, soprattutto dopo la rivoluzione del virtuale. Caratteristica di questa conformazione è la capillarità totale del sistema: siamo tracciabili, ogni nostra azione può essere potenzialmente registrata e conservata. Nel mio libro descrivo il motivo per il quale un simile tipo di pervasività è una fonte potenziale di sfruttamento, che permette al sistema capitalistico di tenere sotto controllo non solo le azioni, ma i pensieri stessi di ogni cittadino. In questo senso, la diffusione dei mass media è certamente un rischio. Tuttavia, questo non deve essere inteso come un argomento a favore di una loro limitazione o, peggio, liquidazione. Proprio grazie all’estensione del mondo virtuale, sussiste la possibilità di un utilizzo virtuoso, uno spazio in cui il contenuto riesce a sfuggire per un istante al controllo e viene reso pubblico. Sulla difesa di questa libertà si fonda la speranza di una democrazia che sia degna del suo nome.

Passiamo all’attualità: il MoVimento Cinque Stelle ha costruito proprio sui concetti di “consapevolezza virtuale” e di “trasparenza comunicativa” i suoi successi. Eppure c’è chi ne critica alcune contraddizioni: l’utilizzo dello streaming web, ad esempio, o le modalità di gestione del dissenso interno. Si rischia di “mistificarsi” anche nel momento in cui si pensa di combattere per l’esatto contrario?
La mistificazione di massa operata dall’industria culturale è pensata proprio per includere al suo interno proprio chi vorrebbe restarne alla larga. Pur non essendo uno strumento perfetto, riesce in maniera molto efficace a neutralizzare l’apparente contenuto critico di cui i movimenti “alternativi” vorrebbero farsi portavoce. Il M5S non sfugge a questa dinamica: nel suo sforzo di proporre un modello diverso rispetto a quello dei partiti tradizionali rischia di ricadere in una dimensione ancora peggiore, presentando una struttura di potere verticale che vede alcuni leader decidere per tutti. Il fatto che queste personalità non siano state elette, accusa principale che venne mossa a suo tempo proprio dal M5S ai deputati scelti dai direttivi degli altri partiti, è un evidente esempio di come sia estremamente difficile presentare un modello che vada al di là di una mistificazione preventiva.

Negli ultimi anni, quali sono stati esempi tangibili del processo di “mistificazione di massa”?
Gli esempi in questo senso sono numerosissimi. Per restare sul tema della politica, mi sembra che l’ascesa al potere e il conseguente ventennio berlusconiano siano eventi emblematici in questo senso. Berlusconi è un maestro della mistificazione. Si è proposto come moralizzatore nel dopo tangentopoli, è riuscito a reintrodurre il concetto di “comunista” come sinonimo di “avversario della democrazia”, peraltro applicandolo al PD che di comunista non ha proprio niente, e ultimamente è riuscito a liquidare il passato del suo governo, convincendo un grande numero di elettori di essere l’uomo giusto per porre rimedio alla crisi. Per quello che riguarda ulteriori esempi rimando alla sezione centrale del mio libro, nella quale mi occupo specificamente di indicare altri campi in qui il processo di mistificazione si è sviluppato.

Essere culturalmente “alternativi”, oggi, va di moda. Anzi, sembra quasi essere un requisito necessario. Come analizza questa tendenza, alla luce della sua ricerca?
Questo è il punto fondamentale. Se ti definisci “alternativo”, ecco che scegli di entrare docilmente all’interno dello schematismo tipico dell’industria culturale, il quale prevede uno spazio prestabilito, quindi neutralizzato, per chiunque voglia farsi portavoce di una protesta o visione diversa da quella ufficiale. Se poi diventa addirittura “di moda”, le possibilità di portare effettivamente a un’emancipazione diventano pressoché nulle.

Questo significa che i movimenti di protesta, oggi, sono inutili?
No, ma testimonia la necessità di essere a conoscenza delle dinamiche attraverso cui il sistema agisce. Se si conosce il proprio avversario, le possibilità di sconfiggerlo aumentano notevolmente. Siamo davanti a un sistema che si avvale delle più moderne tecniche di persuasione e controllo, bisogna essere in grado di mettere in campo antagonismi che siano a conoscenza di mezzi adatti ad aggirarle.

Poco fa ha fatto riferimento al concetto di industria culturale, una definizione coniata dalla Scuola di Francoforte. Ne La mistificazione di massa cerca di applicare le teorie di Theodor Adorno alla contemporaneità?
No, assolutamente. Constato, piuttosto, come il filosofo tedesco abbia avuto la possibilità di vedere con i propri occhi la nascita della comunicazione di massa, seguita dalla dimostrazione del rapporto familiare che intercorre tra quel momento genetico e l’apparato culturale che ci sta di fronte. Mi sono avvalso delle più recenti ricerche in campo mediatico e sociologico proprio per conferire alla mia opera un carattere di attualità, che la allontana dallo sterile stile accademico e vuole renderla uno strumento utile per comprendere la conformazione del capitalismo contemporaneo. L’obiettivo di fondo è restare fedele al motto marxista che vuole un impatto critico della filosofia nei confronti del mondo.

Lei è italiano e vive in Germania. Avendo vissuto le due realtà da vicino, saprebbe dire quali sono le differenze nell’approccio culturale dei mezzi di comunicazione di massa?
Per quanto riguarda il campo dell’informazione, in Germania la divisione è molto più netta. Da una parte, ci sono quotidiani interamente dedicati alle notizie più scandalistiche e fuorvianti, dall’altra i giornali che puntano meno sul populismo e più sull’informazione reale. In Italia invece la situazione è confusa, affianco ad articoli di fondo di argomento politico si trovano brani-spazzatura sulla nuova star di youtube. Tuttavia, a parte queste differenze di stile, l’approccio culturale dei mezzi di comunicazione di massa è simile. Come ho scritto nel mio libro, la dinamica secondo la quale ogni prodotto culturale viene identificato e preventivamente etichettato dal sistema si sviluppa in ogni nazione, magari con caratteristiche esteriori differenti, riuscendo tuttavia a mantenere la propria unità di fondo.

In definitiva, quali strumenti abbiamo per combattere la mistificazione di massa? E soprattutto, abbiamo qualche speranza di salvarci?
L’industria culturale e la mistificazione che ne contraddistingue l’operato sono pensate proprio in modo tale da impedire ogni possibile via alternativa. C’è tuttavia uno strumento che, seppure oggetto di oppressione, rimane prerogativa di ogni essere umano: si tratta di un’arma che, se usata con cognizione di causa e indirizzata verso un obbiettivo comune, può contribuire a garantire un ultimo spazio alla critica, senza la quale il mondo precipiterebbe nella barbarie. Sto parlando del pensiero. Ciò che ha permesso all’uomo di emanciparsi, ciò che gli ha dato la possibilità storica di combattere per i propri diritti, è esattamente quel pensiero utopico che si sta tentando di liquidare. La battaglia è ancora in corso, la rimozione dell’alternativa non è ancora stata portata a termine. In caso contrario, la stessa stesura del mio libro sarebbe stata impossibile. La flebile speranza per il futuro si basa sull’esistenza di questo spazio critico. Se poi, come scrive Giangiorgio Pasqualotto nella sua prefazione, ci sarà da soccombere, che almeno questo avvenga consapevolmente.  

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