New York – Nel concitato e contraddittorio flusso di informazioni che proviene da Boston si possono distinguere chiaramente due dati: le bombe nei cestini della spazzatura a margine della maratona sono la sostanza mortifera di un attentato strutturato, con un livello di complessità e tempismo orribilmente efficace. Una follia in cui si scorge metodo e pianificazione. Senza una rivendicazione non si può dire con certezza se questo metodo porti la firma del fondamentalismo islamico, quella dei suprematisti bianchi o di chissà quale altra diavoleria che può spingere qualcuno a mettere dell’esplosivo in mezzo agli spettatori di una maratona.
Quella delle bombe in sequenza è una tecnica collaudata nelle file di al Qaida e fra i lupi solitari che si radicalizzano su internet, ma la scelta dei cestini della spazzatura appare inusuale. Di certo elementi qaidisti non hanno mai smesso di minacciare gli Stati Uniti, alla ricerca del “secondo colpo”, quello che prova che l’estremismo non è stato piegato dalla reazione americana. Nel 2010 il pachistano Faisal Shahzad ha parcheggiato un Suv pieno di esplosivo in Times Square, a New York, minaccia sventata dai venditori ambulanti che hanno avvertito la polizia dopo aver visto del fumo uscire dall’auto. Meno di sei mesi prima erano stati i passeggeri di un aereo diretto a Detroit a fermare il nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab, che aveva le mutande imbottite di esplosivo. Dall’11 settembre 2011 gli agenti federali hanno sventato decine di attentati di matrice islamica: alcuni erano nello stadio della pura congettura, altri alle soglie della fase d’esecuzione. E lo stesso vale, sebbene in misura diversa, anche per il terrorismo interno, quello della destra radicale e razzista.
Nel 2011 il suprematista Kevin Harpham è stato arrestato e condannato a 32 anni di prigione per aver messo una bomba nei pressi di una parata per la festa di Martin Luther King a Spokane, nello stato di Washington. I commentatori hanno subito fatto notare che l’attentato di Boston è avvenuto nel Patriots’ Day, il terzo lunedì di aprile in cui due stati del New England celebrano le battaglie di Lexington e Concord, incipit della rivoluzione americana. La data appare connessa con l’attentato di Oklahoma City (19 aprile 1995), quello di Waco (19 aprile 1993) ma anche con la sparatoria di Columbine (20 aprile 1999) e il massacro del Virginia Tech (16 aprile 2007); soltanto uno di questi eventi – Waco – è avvenuto, al pari dell’attentato di Boston, nel giorno dedicato ai patrioti che hanno lottato per l’indipendenza, e la tragedia è stata l’epilogo di un assedio durato 50 giorni. Non proprio il sigillo della premeditazione a sfondo simbolico. L’elemento comune all’ipotesi interna e a quella esterna è la complessità dell’atto terroristico – così lo classificano, ma non ancora pubblicamente, le forze dell’ordine – il primo che arriva a compimento dopo l’11 settembre. Barack Obama ha detto che i colpevoli sentiranno “il peso della giustizia”, che pagheranno per le tre vittime finora accertate (uno è un bambino di otto anni) e per gli oltre 140 feriti, di cui almeno 15 in gravissime condizioni: una promessa adeguata alla natura terroristica di un gesto che l’America è riuscita a confinare per oltre dieci anni nello spazio dei sogni perversi degli estremisti.
Il secondo elemento chiaro in questa fase di ricognizione, accertamento e lutto è che l’attacco ha centrato il suo obiettivo: produrre paura. Nel giro di un paio d’ore dopo le esplosioni Boston si è svuotata, si sono moltiplicati falsi allarmi bomba in tutti gli angoli della città, hanno evacuato piazze ed edifici. Il paese si è sentito ancora una volta nudo, vulnerabile, esposto a un male che credeva di avere debellato. Tutta l’America si è rispecchiata in quelle migliaia di bostoniani che in preda al panico hanno mollato quello che stavano facendo per correre a casa, finalmente al sicuro dopo la maratona che ha riportato in superficie l’orrore.