«Singolare paradosso: Maduro vincendo perde, e Capriles perdendo vince» ha scritto poche ore fa sul suo account Twitter il noto politologo venezuelano Luis Vicente León. E del resto il piccolo scarto – 233.935 voti – che ha permesso a Nicolás Maduro di rientrare a palazzo Miraflores ha il sapore di una vittoria amara. Anzi, in molti oltreoceano l’hanno definita una vittoria di Pirro.
L’alternativa politica dell’opposizione venezuelana è riuscita a ottenere l’inaspettato: a dicembre 2012 vinceva su tre delle ventidue regioni. Adesso, Henrique Capriles si è imposto in otto province chiave, con un’importante quota di popolazione. Ma c’è di più. Secondo le prime analisi un milione di elettori chavisti stavolta hanno scelto Capriles. E la distanza tra i candidati che oscillava tra i 10 e i 20 punti nei sondaggi pre-elettorali si è ridotto a uno scarso punto e mezzo.
Una settimana in più di campagna elettorale e, chissà, Maduro avrebbe perso, si sono lasciati sfuggire gli osservatori dopo l’annuncio ufficiale: 7,2 milioni di voti contro 7,5 del hijo de Chávez. Così la polarizzazione del Venezuela, che finora era stata contenuta dall’enorme carisma di Hugo Chávez, sembra sia passata a una fase seconda: è finita l’era del todopoderoso (che può tutto) superpresidente.
Da oggi Caracas è una città divisa a metà. E nei casi estremi, una delle due non ammette nemmeno la legittimità dell’altra: «Non riconosceremo il risultato finché non verranno ricontati i voti dei venezuelani. Uno ad uno», tuonava Capriles, tacciando il neo governo di «illegittimo» e mostrando una lista di tremila irregolarità segnalate dai suoi uomini.
La richiesta di riaprire tutte le urne per riprendere le schede in mano, nonostante l’appoggio del rettore del Consiglio statale elettorale, Vicente Díaz, delegato dell’opposizione, sembra piuttosto improbabile. Ancor più inverosimile poi che possa cambiare il risultato. Di certo però, ad li là delle accuse di brogli, il chavismo non ha mai avuto una battuta d’arresto così forte: per i sondaggisti Maduro perdeva vantaggio giorni dopo giorno, per i sostenitori di Capriles ogni volta che Mad – dall’inglese folle, così come l’hanno definito – parlava bruciava 200 voti e per le male lingue, in una campagna di tre mesi come quella dell’anno scorso, sarebbe addirittura arrivato terzo.
E questo nonostante il defunto líder máximo sia stato onnipresente a mo’ di icona in manifesti, magliette, immagini, video e soprattutto in ogni frase del candidato chavista. Una vittoria tanto ridotta consegna ora, nelle mani di Maduro, una gestione complicata: da una parte dovrà scendere a patti con l’opposizione che gli ha già dichiarato guerra, dall’altra dovrà tener a bada gli avversari interni, come Diosdado Cabello, ex militare e presidente del Parlamento.
Chavista della prima ora, Cabello ha avuto prima un rapporto complicato col Comandante, poi ha bocciato la candidatura del «moderato» Maduro. Senza contare l’emergenza economica cui il nuovo governo dovrà porre rimedio: record d’inflazione, svalutazione della moneta, interruzione cronica dei servizi minimi, come l’elettricità, e un debito gigantesco. In campagna elettorale Maduro ha promesso ospedali, grandi campi sportivi a Caracas e infrastrutture di ogni tipo per il Paese. Ha anche assicurato di porre un freno alla violenza, rilanciare la produzione e innalzare il salario minimo fino al 45 per cento. Non sarà di certo una passeggiata.
Tanto più che adesso c’è un fenomeno provato: Capriles è capace di ottenere più di sette milioni di voti e spaventare un chavismo, che fino a ieri sembrava impossibile battere. Insomma, il socialismo del XXI secolo è stato duramente bastonato e ha smesso di essere l’unico prodotto disponibile negli scaffali della politica nazionale venezuelana: lì accanto c’è adesso un’alternativa che ha già messo radici. E credibilità.
La rivoluzione non è più un offerta superiore e il modello ideologico chavista ne è uscito deprezzato. Quello che comincia allora non è un nuovo governo, ma la continuità di un’amministrazione stantia e vecchia, che fatica dopo quattordici anni al potere. E lo spettro dell’ingovernabilità bussa alla porta di Miraflores. Lo si vedeva già nei visi tristi e preoccupati di chi, pur festeggiando, ammetteva intimamente la sconfitta.