La rielezione di Napolitano ha posto fortunatamente un argine alla follia parlamentare del Pd, ma la sua stessa eccezionalità è un segno della gravità della crisi del partito, la cui deriva suicida probabilmente non si fermerà qui. Il complesso e delicato processo di scelta del nuovo presidente ha messo a nudo la sua impotenza, la sua incapacità di darsi una linea politica maggioritaria, e perfino la sua dipendenza dai social network.
Si dice che il Pd è diviso in bande o tribù in lotta tra loro, e questo è vero. Tuttavia il vero nodo è un altro: la debolezza della leadership esercitata sia dal segretario sia dal gruppo dirigente di maggioranza. Che ci siano fazioni diverse e contrastanti in un partito non è poi così strano, anzi è quasi inevitabile. Il problema vero è il modo in cui queste fazioni si esprimono e si combattono e la capacità del segretario di tenerle sotto controllo. E l’unico modo per farlo è avere una linea politica forte e convincente.
La debolezza della leadership di Bersani è stata proprio quella di non avere una linea politica. Certo, è un fatto che il Pd sia nato in modo anomalo: non tanto perché è il risultato della fusione di due diverse tradizioni politiche, ma piuttosto perché entrambe queste tradizioni politiche erano arrivate al capolinea, erano dei “post” (postcomunisti, postdemocristiani) mai usciti dal loro passato più o meno glorioso per elaborare una identità nuova. Le identità si formano con le scelte politiche. Ma il Pd per troppo tempo le ha evitate. Risultato: nessuno è in grado di dire quali siano le idee del Pd. E tutto il tempo della segreteria Bersani è stato dedicato a discutere se allearsi con Casini o con Vendola, anziché a definire una proposta politica per il paese.
In bilico tra riformismo e Cgil, tra iniezioni di liberismo e corporativismo statalista, tra Monti e Vendola, non c’è da stupirsi se la campagna elettorale sia stata fiacca e priva di idee-forza. Per non parlare del tema della moralizzazione della politica, sempre eluso con colpevole imbarazzo. Così è stato disperso il patrimonio di consenso e di immagine ottenuto con le primarie, e si sono “non vinte” le elezioni.
La responsabilità, naturalmente, non è solo di Bersani. Questo partito ha una malattia genetica: un malinteso senso dell’unità. Le diverse aree hanno sempre rinunciato a condurre battaglie politiche, come paralizzate dal timore di dividere il partito. O forse da quello di essere accusate di spirito correntizio. Ma le correnti ci sono, in qualunque partito democratico. Se non vengono riconosciute come una articolazione reale e legittima, si produce qualcosa di simile a quello che Gramsci chiamava “parlamentarismo nero”. L’alternativa non è tra un partito unito e un partito diviso in correnti. L’alternativa è tra correnti che si sviluppano alla luce del sole e si aggregano sulla base di idee politiche, e correnti sotterranee che si aggregano sulla base di rapporti di fedeltà e di vassallaggio.
Nasce da qui la guerra tra bande che sta lacerando il Pd. Il fallimento di Bersani prima alle elezioni, poi nella trattativa per il governo, infine nella trattativa per la presidenza, con le sue oscillazioni tra l’inseguimento dei grillini e l’intesa con Berlusconi, ha scoperchiato questa realtà, che era ben nota a chi conosce un po’ il Pd. Adesso si sta scatenando la guerra di tutti contro tutti, da un lato; dall’altro comincia la corsa a salire sul carro del (probabile) vincitore, cioè di Matteo Renzi. Il quale a sua volta ha molte ragioni, ma sbaglierebbe a confinare la sua posizione a un discorso sul metodo, qual è quello generazionale.
Certo il ricambio ci vuole, ma non è una questione di età: è per l’appunto una questione di politica. Dice niente il fatto che, in questa fase di ossessivo discorso generazionale, per uscire dall’impasse sia stato necessario ricorrere, col cappello in mano, a un uomo di 88 anni? E che quest’uomo di 88 anni non sia soltanto un simbolo, ma davvero la migliore intelligenza politica del paese?
Ora si andrà al congresso. Che congresso sarà? Ancora una volta un congresso non risolutivo, in cui non ci sia una netta divisione in base alle idee politiche, ma il solito accrocco di potentati locali, di vecchie relazioni, ecc.? Un congresso che si concluda con un accordo di potere (vedi Franceschini che diventa capogruppo)?
A questo punto sarebbe davvero la fine. ll Pd ha forse una speranza di sfuggire alla sua morte annunciata soltanto se affronta davvero e senza reticenze le sue divisioni interne, spostandole dal piano della guerra per bande al piano della dialettica politica, anche dura, ma politica. Per questo, però, cercansi leader-s (al plurale). Cioè persone capaci di spendersi per un progetto, anziché stringere un opaco patto di potere.